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lunedì 22 dicembre 2008

Civile: fideiussione, surrogazione del fideiussore

FIDEIUSSIONE - SURROGAZIONE DEL FIDEIUSSORE - OGGETTO E CONTENUTO
Con la sentenza n. 29216 del 2008 la S.C. ha stabilito che il fideiussore il quale, adempiuta la propria obbligazione nei confronti del creditore principale, manifesti la volontà di surrogarsi a quest’ultimo nei diritti vantati verso il debitore, subentra anche nelle garanzie del credito concesse da terzi in favore del creditore originario, ma solo a condizione che queste ultime fossero accessorie e dipendenti rispetto all’obbligazione principale adempiuta dal fideiussore.
Pertanto, se il debitore aveva ceduto al creditore originario, a scopo di ulteriore garanzia, un proprio credito verso terzi, il pagamento dell’obbligazione non fa acquistare al fideiussore la titolarità del credito ceduto, ed il medesimo fideiussore non può di conseguenza pretenderne l’adempimento da parte del terzo.
La fattispecie decisa dalla S.C. aveva ad oggetto una articolata vicenda nella quale un istituto di credito aveva concesso ad una impresa privata un finanziamento, finalizzato all’acquisto dei mezzi necessari per l’esecuzione di un appalto di opere pubbliche. A scopo di garanzia, l’appaltatore aveva concesso al finanziatore una fideiussione prestata da una impresa assicuratrice, e gli aveva inoltre ceduto i propri crediti futuri nei confronti del committente.
Verificatosi il fallimento dell’appaltatore, e pagata la fideiussione da parte dell’assicuratore, questi aveva esercitato l’azione di surrogazione (ex art. 1205 c.c.) nei confronti del committente, asserendo che per effetto del pagamento era subentrato nella posizione del finanziatore, ed aveva quindi acquistato la qualità di cessionario del credito avente ad oggetto il corrispettivo dell’appalto. La S.C. in applicazione del principio sopra riassunto, ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato la pretesa dell’assicuratore.

Locazioni: Comunicazione di vendita

Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2008, n. 5502

In tema di prelazione urbana, poiché la stipula del contratto preliminare di vendita dell'immobile locato con altro soggetto integra la chiara manifestazione, da parte del locatore, dell'intento di vendere, dal momento di tale stipula sorge a carico del locatore l'obbligo di darne comunicazione al conduttore con atto notificato e corredato di tutte le indicazioni circa le condizioni di vendita, ai sensi dell'art. 38 della legge n. 392 del 1978, mentre è irrilevante che il contratto definitivo debba essere stipulato in data successiva alla cessazione del rapporto locativo, in quanto la norma citata fa riferimento non alla stipula del definitivo ma al momento in cui sorge l'intento di vendere e, presumibilmente, inizia la ricerca del compratore.

Utilità: Sfratti proroga al 30 Giugno 2009

L'esecuzione dei provvedimenti di rilascio per finita locazione degli immobili adibiti ad uso abitativo, già sospesa fino al 15 ottobre 2008 ai sensi del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 (Decreto Milleproroghe), è ulteriormente differita al 30 giugno 2009.

E' quanto prevede il Decreto Legge 20 ottobre 2008, n. 158 convertito con la legge 18 dicembre 2008 n. 199.

In particolare, sono 127 i comuni italiani (comprese le 14 città metropolitane) interessati dal provvedimento che ha l'obiettivo di aiutare i nuclei familiari in difficoltà così come individuati dalla Legge 8 febbraio 2007, n. 9: "conduttori con reddito annuo lordo complessivo familiare inferiore a 27.000 euro, che siano o abbiano nel proprio nucleo familiare persone ultrasessantacinquenni, malati terminali o portatori di handicap con invalidita' superiore al 66 per cento, purche' non siano in possesso di altra abitazione adeguata al nucleo familiare nella regione di residenza".

giovedì 18 dicembre 2008

BUONE FESTE

Lo staff di Legal.Affinati.com
Augura
I più sinceri AUGURI di BUONE FESTE



Il blog sarà sempre on-line e verrà aggiornato seppur in forma ridotta, durante le prossime festività.
Lo staff di Legal.Affinati.com

lunedì 15 dicembre 2008

Responsabilità professionale - Cassazione Sent 25266/2008

In materia di responsabilità del professionista, il cliente è tenuto a provare non solo di aver sofferto un danno, ma anche che questa è stato causato dalla insufficiente o inadeguata attività del professionista e cioè dalla difettosa prestazione professionale. In particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della sua responsabilità implica l’indagine – positivamente svolta – sul sicuro e chiaro fondamento dell’azione che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente coltivata e, quindi, la certezza che gli effetti di una diversa attività del professionista medesimo sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente, rimanendo, in ogni caso, a carico del professionista l’onere di dimostrare l’impossibilità a lui non imputabile della perfetta esecuzione della prestazione

Tributario: Accertamento su C/c amministratore di condominio

Cass., civ. Sez. V, Sentenza del 20/10/2008 n. 25473

In tema di IVA, ed al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, (in virtù della quale le movimentazioni di denaro risultanti dai dati acquisiti dall'ufficio si presumono costituire conseguenza di operazioni imponibili), non è sufficiente che il contribuente, nell'esercizio della propria professione, dimostri genericamente di aver fatto affluire sul proprio c/c bancario somme affidategli da terzi in amministrazione, ma è necessario che egli fornisca la prova analitica di ogni singola movimentazione del conto, diversamente la rispettiva movimentazione, in assenza di altra idonea giustificazione, è configurabile quale corrispettivo non dichiarato.
Pertanto non basta che il contribuente adduca la qualità di amministratore di condominio ma è necessario fornisca la prova specifica.

Condominio: Incidente all'interno dell'area condominiale

Deve escludersi che l'espressione circolazione di veicoli contenuta nell'art. 7 c.p.c., comma 2, in funzione della individuazione della relativa regola di competenza, debba intendersi nel senso di alludere alla circolazione dei veicoli soltanto su strade pubbliche o di uso pubblico o comunque su strade o aree private con situazioni di traffico equiparabile a quella di una strada pubblica.
Ne deriva che la regola di competenza è applicabile anche nel caso di circolazione su strada o su area privata, come nel caso di sinistro avvenuto nell'area condominiale antistante l'accesso ai boxes condominiali e dato dall'urto di un'autovettura contro il cancello

Lavoro: CIG- Cassa Integrazione

Le garanzie procedimentali disposte dalla l. 23 luglio 1991 n. 223 in materia di Cassa integrazione guadagni straordinaria vanno estese anche alle fattispecie in cui, nel tempo di operatività della Cassa integrazione, se ne mutano le modalità attuative, quali i criteri di scelta e la durata delle sospensioni. Ciò implica che non è consentita una modofoca delle condizioni di attuazione dell'integrazione salariale che non veda coinvolto a livello conoscitivo il lavoratore nel procedimento decisionale. La violazione del diritto del lavoratore collocato in Cassa integrazione a rientrare in servizio in base a prefissati criteri di rotazione costituisce inadempimento contrattuale, cui corrisponde la prescrizione decennale ex art. 2946 c.c. del credito del lavoratore avente per oggetto la differenza tra retribuzione ordinaria e indennità di Cassa integrazione percepita. (Cass. 7/2/2006 n. 2555)
Il beneficio della cig, che si caratterizza in relazione alle diverse categorie di lavoratori, non è connesso indissolubilmente a quello della mobilità, che ha diversa natura, ma è legato a diversi presupposti e spetta solo in caso di espressa previsione di legge; ne consegue che, ai dipendenti delle imprese radiotelevisive private – ai quali è stato temporaneamente esteso, in presenza di alcuni presupposti e per effetto della speciale normativa di cui agli art. 7 d.l. 20 maggio 1993 n. 148 (convertito in l. 19 luglio 1993 n. 236) e 2 d.l. 14 giugno 1996 n. 318 (convertito in l. 29 luglio 1996 n. 402), il trattamento di integrazione salariale straordinario previsto dall’art. 35 l. 5 agosto 1981 n. 416 (che richiama l’art. 2 l. 12 agosto 1977 n. 675) – non è automaticamente dovuta l’indennità di mobilità, prevista espressamente solo per i giornalisti dalla generale normativa di cui all’art. 16 l. 23 luglio 1991 n. 223. (Cass. 10/12/2004 n. 23078)
Il soggetto tenuto a dare all'Inps la preventiva comunicazione dello svolgimento di attività lavorativa - pena la decadenza del lavoratore dal diritto al trattamento di integrazione salariale all'interno di ciascun periodo di cassa integrazione nel quale si sia verificata l'omissione, ai sensi dell'art. 8, quinto comma, D.L. 21/3/88, n. 86, convertito, con modificazioni, in l. 20/5/88, n. 160 - è direttamente il lavoratore medesimo, talché deve escludersi l'equipollenza di analoga comunicazione rivolta all'Inps dal datore di lavoro con finalità diverse da quelle sottostanti all'obbligo di comunicazione imposto al lavoratore o della notizia comunque e genericamente pervenuta all'Istituto di previdenza al di fuori di detta comunicazione, la quale deve essere resa anche nell'ipotesi in cui l'occupazione sia compatibile con il trattamento di integrazione salariale. (Cass. 14/3/01, n. 3690)

martedì 2 dicembre 2008

Lavoro: Assunzione

In tema di collocamento al lavoro, e a norma dell'art. 1, L. 943/86, anche i lavoratori extracomunitari aventi titolo per accedere al lavoro subordinato in Italia a condizione di parità con i cittadini italiani possono, in difetto di esplicita esclusione normativa (quale quella prevista dall'art. 6 L. 943/86 citata per i lavoratori da adibire ai servizi domestici), essere assunti direttamente in tutti i casi previsti dall'art. 11 L. 264/49 e pertanto anche nell'ipotesi in cui, come nella specie, la chiamata provenga da azienda con non più di tre dipendenti (Cass. S.U. 30/3/00 n. 62)
La trasgressione da parte di pubblico dipendente del divieto di svolgere un'attività retribuita alle dipendenze di privati può comportare sanzioni disciplinari, ma non implica l'invalidità del contratto di lavoro stipulato in violazione del divieto e non esclude quindi che tale contratto produca i suoi normali effetti anche sul piano previdenziale e assistenziale (in base al suddetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, dopo aver affermato la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorrente fra un insegnante e un'azienda agricola, aveva ritenuto che la coesistenza di tale rapporto con il rapporto di pubblico impiego non escludesse l'obbligo datoriale di costituire il conseguente rapporto previdenziale) (Cass. 25/2/00, n. 2171)
Concorso Pubblico
L'istituto del c.d. scorrimento della graduatoria, che consente ai candidati idonei di divenire vincitori, presuppone una decisione successiva dell'amministrazione di coprire il posto vacante oppure una specifica disposizione di legge o del bando che preveda che tra i posti messi a concorso obbligatoriamente debbano essere compresi anche quelli che si dovessero rendere vacanti entro una certa data. Tuttavia, una volta che tale decisione sia assunta o si sia realizzata la condizione prevista dal bando, il candidato utilimente collocato in graduatoria ha un diritto soggettivo all'assunzione. (Cass. 21/12/2007 n. 27126)
Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 1 e 2 della L.R. Valle d’Aosta 14 novembre 2002, n. 23 (Disposizioni materia di personale del Dipartimento delle politiche del lavoro e dell’Amministrazione regionale) in quanto prevedono una procedura di corso-concorso integralmente riservata a personale già in servizio presso la medesima amministrazione e non reclutato, a suo tempo, mediante pubblico concorso. (Corte Cost. 6/7/2004 n. 205)
Procedura
Nell’ipotesi in cui un candidato partecipante ad un pubblico concorso, dichiarato vincitore con apposita deliberazione e collocato in graduatoria con successivo giudizio di inidoneità all’assunzione a seguito di visita medica negativa, chieda l’accertamento giudiziale del suo diritto all’assunzione sulla base della graduatoria approvata, il giudizio non deve svolgersi in contraddittorio con gli altri partecipanti al concorso non ricorrendo l’ipotesi di cui all’art. 102 c.p.c., poiché la suddetta domanda non implica la richiesta di riformulazione della graduatoria o contestazioni relative alla validità del concorso, che, diversamente, avrebbero determinato la necessità dell’estensione del contraddittorio agli altri candidati. Cass. 25/8/2005 n. 17324)
In un concorso con una quota di riserva, sono devolute alla giurisdizione amministrativa anche le controversie derivanti dalle impugnazioni proposte dai concorrenti "in quota di riserva" (perché dipendenti dell'amministrazione), poiché per tutti i partecipanti si tratta di una procedura concorsuale per l'assunzione nella qualifica indicata nel bando (Corte Cost. 4/1/01, n. 2)

Penale: Cassazione Sent 40577/2008

La Suprema Corte, dopo aver ricordato la recente pronuncia emessa dalla Corte Costituzionale in una fattispecie concernente la videoregistrazione a fini investigativi (n. 149/2008), ribadisce che la ripresa fotografica da parte di terzi di azioni che si svolgano nei luoghi di privata dimora lede la riservatezza ed integra pertanto l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 615 bis c.p., sempreché si tratti di comportamenti sottratti alla normale osservazione dall’esterno ovvero si tratti di azioni compiute in condizioni tali da renderle tendenzialmente non visibili ai terzi.

2. La Corte nel caso all’esame esclude la configurabilità del reato prospettato perché l’azione ripresa dal marito-fotografo si svolgeva in un luogo (cortile) che pur essendo privato era esposto alla libera osservazione degli estranei e quindi a parere del giudici del Supremo Consesso le riprese non si differenziavano da quelle che ben potevano essere effettuate in un luogo pubblico od aperto al pubblico.

Civile: Obbligazioni Cassazione Sent. 28420/2008

OBBLIGAZIONI - SOMMA DETERMINATA IN VALUTA ESTERA - SOPRAVVENUTA SVALUTAZIONE
La S.C. ha affermato che il debitore di somma determinata in valuta estera, se inadempiente, nel caso di sopravvenuta svalutazione della moneta italiana rispetto a quella estera, deve la differenza tra il cambio della data di scadenza e quello della data di pagamento, giacché, diversamente, trarrebbe ingiusta locupletazione dalla sua mora, ove pagasse in moneta legale al corso del cambio del giorno della scadenza, secondo la facoltà accordatagli dall'art. 1278 cod. civ..

Lavoro: Appalto mano d'opera

L'art. 4 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369 (sul divieto di intermediazione e interposizione delle prestazioni di lavoro), che pone il termine di decadenza di un anno dalla cessazione dell'appalto per l'esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro, dipendenti da imprese appaltatrici di opere e di servizi nei confronti degli imprenditori appaltanti - pur facendo riferimento, oltre che ai diritti al trattamento economico e normativo, anche al diritto di pretendere l'adempimento degli obblighi derivanti dalle leggi previdenziali - limita l'ambito di efficacia del suddetto termine ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore; non potendosi estendere invece l'efficacia della disposizione legislativa a un soggetto terzo, quale l'ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggono, pertanto, al termine annuale decadenziale. (Cass. 17/1/2007 n. 996)
Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono i primi tre commi dell'art. 1, l. 23 ottobre 1960, n. 1369, la nullità del contratto tra committente e appaltatore (o intermediario) e la previsione dell'ultimo comma dello stesso articolo - secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni - comportano che solo sull'appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore o interposto in virtù dell'apparenza del diritto e dell'apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi che vi sono sottesi. (Cass. 26/10/2006 n. 22910)

D.Lgs.276/2003
La fattispecie di appalto di mere prestazioni di lavoro prevista dall'art. 1, L. n. 1369/1960 è solo parzialmente abrogata a opera dell'art. 18, D.Lgs. n. 276/2003, in quanto continua a essere punita come reato l'attuale fattispecie di somministrazione di lavoro da parte di agenzie non abilitate e si applica anche la legge speciale n. 67/1993 che prevedeva un'eccezione al divieto di cui alla L. n. 1369/1960 in caso di esercizio di mera fornitura da parte di senza senza scopo di lucro che svolgono attività socio assistenziali. (Cass. sez. pen. 16/6/2006 n. 20756)

Art.1 Co.3 L. 1369/60
Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono i primi tre commi dell'art. 1 l. 23 ottobre 1960, n. 1369, la nullità del contratto tra committente e appaltatore (o intermediario) e la previsione dell'ultimo comma dello stesso articolo - secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell'imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni - comportano che solo sull'appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore o interposto in virtù dell'appartenenza del diritto e dell'apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi che vi sono sottesi. (Cass. Sez. Un. 26/10/2006 n. 22910)

Altre ipotesi illecite
In caso di impiego di manodopera negli appalti concessi dall'azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato per il periodo successivo al 5/2/88 (data di introduzione del regime privatistico del rapporto di lavoro dei ferrovieri) in seguito alla successione all'azienda autonoma dello Stato prima dell'ente pubblico economico Ferrovie dello Stato e, quindi, della s.p.a. Ferrovie dello Stato, non potendo considerarsi più in vigore il D.P.R. n. 1192/1961 (che prevedeva un'apposita disciplina in favore dei dipendenti delle imprese appaltatrici de quibus) è divenuto operante l'art. 1, 5° comma, l. n. 1369/60 (secondo cui l'interpositore, effettivo utilizzatore delle prestazioni, si sostituisce all'interposto nel rapporto di lavoro) per i casi in cui i lavoratori risultassero formalmente dipendenti di imprese appaltatrici di mere prestazioni di lavoro, rendendo, però, effettivamente la loro attività direttamente a vantaggio delle Ferrovie (Cass. 29/5/00, n. 7089)

Lavoro: Licenziamento

Normativa Contrattuale
All'autonomia individuale ed a quella collettiva non è consentito di regolare la disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro prevedendo cause estintive del rapporto a tempo indeterminato ulteriori rispetto a quelle contemplate dal codice civile e dalle leggi speciali e, conseguentemente è nulla, ex art. 1428 c.c., la clausola, contenuta nel contratto individuale o nel contratto collettivo di diritto comune, che stabilisca la risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento di una determinata anzianità contributiva. (Cass. 15/1/2003, n. 535)
Nella nuova regolamentazione legislativa (d.l. n. 487/93, convertito in l. n. 71/94) del rapporto di lavoro di diritto privato dei dipendenti dell'Ente poste italiane, il contratto collettivo per tale categoria di personale - che non è autorizzato a derogare alla legge non essendo identificabile alcuna cosiddetta delegificazione della materia, ma solo privatizzazione del rapporto - non può innovare o derogare rispetto alle norme di legge imperative e quindi è nulla (ex art. 1418 c.c.) la previsione contrattuale, secondo cui (a partire dal 31/1/95) il rapporto di lavoro si risolve automaticamente (senza obbligo di preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva) al raggiungimento della massima anzianità contributiva, con effetto dal giorno successivo al compimento di quaranta anni utili ai fini pensionistici, perché in violazione del principio (di natura inderogabile) secondo cui il rapporto di lavoro si può risolvere solo per licenziamento, per dimissioni, per mutuo consenso o per lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dall'art. 18, comma 5, l. 20/5/70, n. 300. (Cass. 27/1/01, n. 1165)

Motivi licenziamento
Nell'ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all'esigenza di rispettare non solo il primo comma dell'art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall'attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell'eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l'onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro - avente valore di una eccezione - ricade sull'eccipiente - datore di lavoro ex art. 2697 c.c. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in sede di rinvio, aveva applicato un principio di diritto contrario a quello enunciato dalla sentenza rescindente - secondo la quale la c.d. "estromissione" del lavoratore dal posto di lavoro invertiva l'onere probatorio, ponendo a carico del datore la prova di un fatto estintivo del rapporto diverso dal licenziamento - giacché si era impegnata a dimostrare che la pur controversa estromissione del lavoratore dal posto di lavoro non configurasse un licenziamento orale, addossando ancora una volta sullo stesso lavoratore l'onere di provare l'estinzione del rapporto lavorativo). (Cass. 27/8/2007 n. 18087)

Lavoro: Licenziamento

Normativa contrattuale
All'autonomia individuale ed a quella collettiva non è consentito di regolare la disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro prevedendo cause estintive del rapporto a tempo indeterminato ulteriori rispetto a quelle contemplate dal codice civile e dalle leggi speciali e, conseguentemente è nulla, ex art. 1428 c.c., la clausola, contenuta nel contratto individuale o nel contratto collettivo di diritto comune, che stabilisca la risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento di una determinata anzianità contributiva. (Cass. 15/1/2003, n. 535)
Nella nuova regolamentazione legislativa (d.l. n. 487/93, convertito in l. n. 71/94) del rapporto di lavoro di diritto privato dei dipendenti dell'Ente poste italiane, il contratto collettivo per tale categoria di personale - che non è autorizzato a derogare alla legge non essendo identificabile alcuna cosiddetta delegificazione della materia, ma solo privatizzazione del rapporto - non può innovare o derogare rispetto alle norme di legge imperative e quindi è nulla (ex art. 1418 c.c.) la previsione contrattuale, secondo cui (a partire dal 31/1/95) il rapporto di lavoro si risolve automaticamente (senza obbligo di preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva) al raggiungimento della massima anzianità contributiva, con effetto dal giorno successivo al compimento di quaranta anni utili ai fini pensionistici, perché in violazione del principio (di natura inderogabile) secondo cui il rapporto di lavoro si può risolvere solo per licenziamento, per dimissioni, per mutuo consenso o per lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dall'art. 18, comma 5, l. 20/5/70, n. 300. (Cass. 27/1/01, n. 1165)

Procedura
Nel rito del lavoro, caratterizzato da una rigida disciplina della fase introduttiva, integra una vera e propria “mutatio libelli”, come tale non consentita, la formulazione di una domanda che, ad integrazione di quella originariamente proposta, concernente la sola declaratoria di illegittimità di un licenziamento, abbia ad oggetto l’applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, atteso che essa implica non solo un mutamento del “petitum” ma anche della “causa petendi”, in quanto l’applicabilità della tutela reale presuppone, in particolare, la sussistenza di un determinato requisito dimensionale la cui valutazione da parte del giudice comporta l’inserimento nel processo dell’allegazione di un fatto costitutivo precedentemente non dedotto. (Cass. 28/7/2005 n. 15781)

Il lavoratore che deduca con il ricorso introduttivo l’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa non può far valere successivamente nel corso del giudizio (con le note autorizzate prima dell’udienza di discussione, come nella specie) la nullità per l’inosservanza della procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare, in quanto tale ulteriore prospettazione costituisce domanda nuova, trattandosi di una diversa “causa petendi”, con l’inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso tema di indagine e di decisione. La preclusione posta dall’art. 414 c.p.c. non può essere superata, né ritenendo riconducibili i passaggi procedurali richiesti dall’art. 7 cit. a requisiti formali, come tali sussumibili nelle generiche censure di ordine formale contenute nel ricorso, atteso che la prospettazione di detti profili implica l’allegazione di fatti nuovi; né dall’acquiescenza o dall’accettazione del contraddittorio della controparte, stante le esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento del processo poste a fondamento della disciplina della fase introduttiva del giudizio. (Cass. 20/4/2005 n. 8264)

Nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o risoluzione per mutuo consenso) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all'esigenza di rispettare non solo il primo comma dell'art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere della controparte; regola che deve ritenersi violata nel senso di rigetto della domanda basato in sostanza sulla valorizzazione dell’ipotesi di mutuo consenso, privilegiata solo per la ritenuta insufficienza della prova del licenziamento. (Nella specie, la Corte Cass. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda del lavoratore, ritenendo non sufficiente la prova del licenziamento orale e valorizzando l’eccezione – peraltro irrituale – del mutuo consenso, dando rilievo a fatti irrilevanti, quali la quietanza liberatoria rilasciata dal lavoratore nel riscuotere la liquidazione del tfr, il lungo tempo trascorso tra il licenziamento e la proposizione della domanda giudiziale, il reperimento di una nuova occupazione). (Cass. 18/3/2005 n. 5918)
Incorre in violazione dell’art. 112 c.p.c. la decisione di merito che addivenga all’accoglimento della domanda di annullamento del licenziamento, rilevando d’ufficio l’irrituale esperimento della procedura di licenziamento collettivo, per nulla invocato dall’originario ricorrente. (Nella specie il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per carenza del giustificato motivo oggettivo e il datore di lavoro aveva sostenuto che si trattava di licenziamento collettivo. La corte di appello, aderendo alla tesi del licenziamento collettivo, lo aveva, tuttavia, dichiarato inefficace per violazione degli obblighi di comunicazione di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991, emettendo, in tal modo, una statuizione basata su elementi fattuali non allegati. (Cass. 20/12/2004 n. 23611)
In un giudizio di impugnazione di licenziamento illegittimo il datore di lavoro non può allegare e provare per la prima volta in appello l'intervenuta cessazione dell'attività aziendale, ostativa alla liquidazione dei danni maturati successivamente a tale cessazione. (Cass. 20/12/2002, n. 18194)

Lavoro: Licenziamento

Reiterazione del licenziamento
La rinnovazione del licenziamento, in base ai motivi posti a fondamento di un precedente licenziamento inficiato di nullità o comunque inefficace, non è in linea generale preclusa risolvendosi, detta rinnovazione, nel compimento di un negozio diverso dal precedente ed esulando l'ipotesi di inammissibilità della convalida del negozio nullo, ai sensi dell'art. 1423, norma diretta a impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti "ex tunc", ma non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della loro autonomia negoziale al fine di regolare i loro interessi. (Principio affermato in controversia in cui nello stesso giorno in cui pervenivano le giustificazioni in ordine a un primo licenziamento, il datore di lavoro intimava nuovo licenziamento tenuto conto delle giustificazioni addotte dal lavoratore. La corte territoriale, con decisione confermata dalla S.C., aveva accertato la tempestiva impugnazione del primo licenziamento, ma non del secondo, con conseguente inammissibilità dell'azione proposta per la declaratoria dell'illegittimità del secondo licenziamento). (Rigetta, App. Napoli, 15 luglio 2003). (Cass. 6/11/2006 n. 23641)

In costanza di malattia
Il licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore non è nullo, ma solo temporaneamente inefficace fino alla guarigione o alla scadenza del comporto (Cass. 16/5/00, n. 6348)

Per limiti d'età
Con riferimento alla non applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti in ragione dell’età o della condizione pensionistica, disciplinata dall’art. 4 della legge n. 108 del 1990, dal sistema dei rinvii previsti dalla suddetta norma risulta che l'intenzione del legislatore era quella di escludere nei confronti dei suddetti lavoratori (in linea di massima) l’applicabilità dell’intera legge n. 604 del 1966, a prescindere dalla dimensione occupazionale del datore di lavoro, ed in particolare l’applicabilità della norma (rilevante nel caso di specie) che prevede l’inefficacia del licenziamento per violazioni delle prescrizioni formali (articolo 2 della legge n. 604 del 1966). (Cass. 11/4/2005 n. 7359)

Lavoro: Licenziamento

Motivi
I motivi del licenziamento devono contenere le necessarie precisazioni per consentire al lavoratore di esercitare il suo diritto di difesa, che non si risolve nella sola difesa giudiziaria, ma anche nel diritto di impugnare consapevolmente il licenziamento nei termini previsti dalla legge. (Cass. 3/8/2004 n. 14873)
Rifiuto a ricevere la comunicazione
Il principio secondo cui, anche al di fuori dell'ambito di operatività dell'art. 138, secondo comma, c.p.c., il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere lo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare del principio secondo cui non esiste, in termini generale e incondizionati, l'obbligo, o l'onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l'obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro e durante l'orario di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (così come non può escluderi un obbligo di ascolto, e quindi ha confermato sul punto la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto opposto dal lavoratore a ricevere la lettera di licenziamento che il datore intendeva consegnargli a mano all'interno della struttura nella quale lavorava e durante l'orario di lavoro. (Cass. 5/11/2007 n. 23061)
Revoca
La revoca del licenziamento del lavoratore subordinato non richiede la forma scritta, poiché i negozi risolutori degli effetti richiedenti la forma scritta non sono assoggettabili ad identici requisiti formali, in ragione del principio secondo cui la forma degli atti è libera se la legge (o la volontà delle parti) non richiede espressamente una forma determinata; parimenti, e per lo stesso motivo, è libera la forma dell’accettazione della revoca del licenziamento, che comporta la rinunzia del lavoratore a far valere i diritti scaturenti dal licenziamento, ma il relativo accertamento richiede una ricostruzione della volontà abdicativa in termini certi, nel senso che la condotta del rinunziante attesti in modo univoco la volontà di dismettere un diritto entrato nel proprio patrimonio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva negato che la percezione del trattamento cigs potesse equivalere ad accettazione del ripristino del rapporto di lavoro, senza valutare adeguatamente la condotta della lavoratrice alla luce delle informazioni di cui la stessa disponeva sulle prospettive aziendali). (Cass. 1/7/2004 n. 12107)

lunedì 1 dicembre 2008

Lavoro: Licenziamento

Forma

Ai fini della validità formale del licenziamento non occorre che la comunicazione scritta, intesa alla risoluzione del rapporto di lavoro, sia formalmente diretta al lavoratore, ma è necessario almeno che essa sia portata a sua conoscenza. Così, la comunicazione del licenziamento indirizzata e spedita all'Ufficio del lavoro non è idonea a integrare i requisiti della forma scritta previsti per l'efficacia del recesso, se copia di essa non è inoltrata anche al lavoratore. (Cass. 19/6/2006 n. 14090)
La forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam sicchè, a norma dell'art. 2 L. 15/7/66 n. 604 sia l'intimazione del licenziamento che la comunicazione dei relativi motivi (ove il lavoratore ne abbia fatto richiesta), debbono, a pena di inefficacia, rivestire la forma scritta, con la conseguente irrilevanza di un'intimazione e di una contestazione espresse in forma diversa e della conoscenza che il datore ne abbia altrimenti avuto. Ai fini del risarcimento del danno, da determinarsi in base alle regole generali sull'inadempimento delle obbligazioni contrattuali, non è necessaria la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante l'offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative. (Cass. 9/3/2006 n. 11670)
A norma dell’art. 2 della legge n. 604/1966, il licenziamento deve essere intimato per iscritto e la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, per cui è stata considerata irrilevante la circostanza che il lavoratore destinatario del provvedimento abbia avuto conoscenza del provvedimento estintivo con mezzi diversi. Inoltre, qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza di dimissioni del lavoratore, il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, c.c. Segnatamente, ai fini della prova delle dimissioni, va verificato che la dichiarazione o il comportamento cui si intende attribuire il valore negoziale di recesso del lavoratore contenga la manifestazione univoca dell’incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che questa volontà sia stata comunicata in modo idoneo alla controparte, considerando che le dimissioni costituiscono un atto a forma libera, a meno che sia convenzionalmente pattuita la forma scritta ad substantiam. (Cass. 20/5/2005 n. 10651)
In base alle regole dettate dall’art. 2, L. n. 604/1966 (modificato dall’art. 2, L. n. 108/1990) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto separato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore – il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter opporre propri specifici rilievi – ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, con la conseguenza che nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve considerarsi illegittimo. (Cass. 3/8/2004 n. 14873)

Speciale diritto del lavoro

Da questa settimana, il blog dei professionisti Legal.Affinati.com si arricchisce di uno speciale sul diritto del lavoro.

Troverete le massime della Suprema Corte di Cassazione più rilevanti e recenti.

Buona lettura

C.d.S. Eccesso di velocità e contestazione immediata

Se l’infrazione per eccesso di velocità è accertata su strade non indicate “come pericolose” dal Prefetto con apposito decreto, il relativo verbale va contestato immediatamente all’automobilista pena l’illegittimità.

E’ questo il principio con cui il GdP di Lecce, Avv. Nicola Brunetti, ha annullato con sentenza depositata lo scorso 13 ottobre il verbale elevato, attraverso autovelox, per eccesso di velocità dai VV.UU. di Lecce, sulla strada Lecce – Lequile.

Secondo il Giudice di Pace, l’art. 201 C.d.S, dopo la recente modifica, ha escluso l’obbligo di contestazione immediata delle infrazioni elevate attraverso autovelox nel solo caso di strade indicate come pericolose dal Prefetto competente con apposito decreto.

Viceversa, nel caso del ricorrente non risulta dagli atti che la strada Lecce - Lequile ove è stata rilevata l’infrazione in questione rientri in tale casistica. Pertanto, al fine di evitare la lesione del diritto del cittadino ad esporre eventuali osservazioni e giustificazioni, l’infrazione andava contestata immediatamente al ricorrente, così come previsto sia dall’art. 200 comma 1 del Codice della Strada, sia dalla Corte di Cassazione con pronuncia 1 Febbraio - 3 Aprile 2000, n. 4010.

Inoltre, il Giudice ha censurato anche il modus operandi dei VV.UU. di Lecce che non hanno indicato i motivi che avrebbero reso impossibile la contestazione immediata, quando invece questi a norma del CdS “devono essere, con congrua e non generica né preordinata esposizione, indicati nel verbale da notificare al trasgressore”.

Nel verbale impugnato si legge infatti: “Velocità rilevata con apposito apparecchio che consente la determinazione dell’illecito in tempo successivo dopo che il veicolo oggetto della rilevazione è a distanza dal posto di accertamento e comunque la pattuglia a valle, appositamente predisposta, era impegnata nella contestazione di altra violazione ai limiti di velocità”.

Tale motivazione oltre che generica e “standardizzata”, ha proseguito il Giudice appare confusa e contraddittoria perché non è dato capire se l’infrazione non è stata contestata immediatamente perché l’apparecchiatura consente la rilevazione dell’illecito in tempo successivo o perché la pattuglia era impegnata in altra contestazione.

Ha infine concluso il giudice rilevando come non può ignorarsi che presso l’Ufficio del Giudice di Lecce pendono centinaia di ricorsi contro il Comune di Lecce per fattispecie identiche nelle quali i verbalizzanti hanno fornito sempre le medesime giustificazioni.

Fonte:Altalex.com

Penale: Cassazione Sent. 43189/2008 detenzione di materiale pornografico

DELITTI CONTRO LA PERSONA – DETENZIONE DI MATERIALE PORNOGRAFICO - CONDOTTE VIETATE - CONCORSO FORMALE - ESCLUSIONE
Con la decisione in esame - in una fattispecie nella quale era contestato all’imputato di essersi procurato per via telematica materiale pedopornografico ottenuto mediante lo sfruttamento di minori - la Corte, dopo aver comparato il testo vigente della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 600 quater cod. pen. con la formulazione antecedente alle modifiche introdotte dalla l. 6 febbraio 2006, n. 38, ha affermato che le condotte oggi contemplate (procurarsi o detenere) non integrano due diverse ipotesi di reato, ma rappresentano distinte modalità di perpetrazione del medesimo reato, essendo escluso tra di esse il concorso formale.

Civile: Cassazione SS.UU. 27337/2008 - Illecito extracontrattuale prescrizione

RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE – FATTO REATO – MANCANZA DI QUERELA - PRESCRIZIONE DEL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO
Le S.U. – alle quali, per evitare il formarsi di un contrasto con la precedente decisione a sezioni unite (sentenza n. 5121 del 2002), è stata rimessa la questione della durata del termine di prescrizione del risarcimento nell’ipotesi di reato procedibile a querela, non presentata – hanno affermato il seguente principio di diritto: "Nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche se per mancata presentazione della querela, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche all’azione di risarcimento, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescrizione stessa decorre dalla data del fatto". Quanto, poi, alla decorrenza della prescrizione, le S.U. hanno richiamato le recenti pronunce del 2008 (tra quelle in pari data v. S.U. n. 581).

Condominio: risarcimento danni per mancato godimento

Diritto reale, risarcimento dei danni per mancato godimento, aree destinate a parcheggio condominiale

Corte di Cass., Civi. Sez. II, 9 giugno 2008, n. 15238

I titolari di un diritto reale che chiedono il risarcimento dei danni per il mancato godimento del diritto stesso non sono tenuti a provare il danno subìto, poiché il medesimo è in re ipsa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito in quanto non si comprendeva per quale motivo gli attori, al fine di ottenere il risarcimento dei danni per il mancato uso di un bene sul quale vantavano un diritto reale dovevano provare la impossibilità di parcheggiare le loro autovetture nelle strade adiacenti al complesso di cui erano condomini, in considerazione del principio pacifico secondo il quale il danno derivante dal mancato godimento di un immobile (e quindi anche di un diritto reale immobiliare) è in re ipsa.)

Condominio: Privacy

Non viola la privacy il condomino che con la telecamera riprende parti non comuni

Corte di Cass. , Sez. V Penale, Sentenza n. 44156 del 26 novembre 2008

Non compie violazione della privacy chi installa sul proprio balcone delle telecamere di sicurezza che riprendono non solo alcune parti dello stabile, comuni a tutti gli inquilini, ma anche porzioni esterne dell'area di proprieta' dei vicini di casa.

Per la Suprema Corte (quinta sezione penale, sentenza n.44156), invece, “deve escludersi una intrusione, tanto nella privata dimora, quanto nel domicilio” con riferimento a videoriprese che hanno ad oggetto “comportamenti tenuti in spazi di pertinenza dell’abitazione di taluno ma di fatto non protetti alla vista degli estranei” poiché tali spazi “sono assimilabili a luoghi esposti al pubblico”. Il ricorso dell’imputato, dunque, va accolto, dato che “risulta evidente” come egli “abbia fatto uso del suo diritto di osservare quanto accadeva in zone comuni non protette alla vista” e la ripresa “per quanto effettuata contro la volontà dei condomini” non si era svolta “né clandestinamente né fraudolentemente”.

lunedì 24 novembre 2008

Fisco: Certificazione Utili e proventi equiparati - CUPE 2009

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Penale. Cass. 43313/2008 Guida in stato di ebbrezza

CIRCOLAZIONE STRADALE – GUIDA IN STATO DI EBBREZZA – NORMA INCRIMINATRICE A FATTISPECIE PLURIME
La Corte ha chiarito che le tre diverse ipotesi di guida in stato di ebbrezza configurate nell’art. 186 cod. strada, a seguito delle modifiche apportate dal d. l. n. 117 del 2007, integrano altrettante fattispecie autonome di reato, rilevando come tra le disposizioni che le prevedono non intercorra alcun rapporto di specialità che consenta di considerare alcune delle ipotesi come mere circostanze aggravanti delle altre.

Dir. Societario: Cass Sent 25192/2008, cancellazione registro imprese

In tema d’interpretazione del nuovo diritto societario, la Corte ha stabilito che la modifica dell’art. 2495 cod. civ., ex art. 4 d.lgs. n. 6 del 2003, per cui la cancellazione dal registro delle imprese determina, contrariamente al passato, l’estinzione della società, si applica anche alle società di persone, nonostante la prescrizione normativa indichi esclusivamente quelle di capitali e quelle cooperative. La S.C. ha affermato, inoltre, che la norma, per la sua funzione ricognitiva, è retroattiva e trova applicazione anche in ordine alle cancellazioni intervenute anteriormente all’1/1/2004, data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal citato d.lgs. n. 6 del 2003, con la sola esclusione dei rapporti esauriti e degli effetti già irreversibilmente verificatisi.

Lavoro: Cass. Sent 27475/2008 - Partecipazione impresa familiare

Con decisione per la quale non constano precedenti specifici, la S.C., statuendo l’applicabilità al partecipe dell’impresa familiare della disciplina del riscatto di cui all’art. 732 c.c. nei limiti di compatibilità, ha affermato che il rinvio enunciato, nell’art. 230 bis c.c., all’art. 732 c.c. attiene al diritto di prelazione tout-court e al possibile sviluppo dell’istituto nella direzione del riscatto presso terzi acquirenti, attesa la ratio, perseguita dal legislatore, di predisporre una più intensa protezione al lavoro familiare, favorendo, nell’acquisto dell’azienda, chi abbia contribuito attivamente all’impresa nell’ambito della comunità familiare e rinvenendo, a fondamento dell’istituto, giustificazioni ispirate alla tutela del lavoro cui partecipa la comunità familiare, con particolare occhio di riguardo, non esplicitato, ma evidente, dato il momento storico di riferimento, al lavoro femminile.

Condominio: legittimazione del singolo condomino

Configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, l'esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l'amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti, esclusivi e comuni, inerenti all'edificio condominiale. Ne consegue che ciascun condomino è legittimato ad impugnare personalmente, anche per cassazione, la sentenza sfavorevole emessa nei confronti della collettività condominiale ove, come nella specie, non vi provveda l'amministratore

domenica 16 novembre 2008

condominio: comunicazione di vendita - preliminare

In tema di prelazione urbana, poiché la stipula del contratto preliminare di vendita dell'immobile locato con altro soggetto integra la chiara manifestazione, da parte del locatore, dell'intento di vendere, dal momento di tale stipula sorge a carico del locatore l'obbligo di darne comunicazione al conduttore con atto notificato e corredato di tutte le indicazioni circa le condizioni di vendita, ai sensi dell'art. 38 della legge n. 392 del 1978, mentre è irrilevante che il contratto definitivo debba essere stipulato in data successiva alla cessazione del rapporto locativo, in quanto la norma citata fa riferimento non alla stipula del definitivo ma al momento in cui sorge l'intento di vendere e, presumibilmente, inizia la ricerca del compratore.
Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2008, n. 5502

Condominio: Falsità ideologica del verbale d'assemblea

Il giudizio, per fare dichiarare la falsità ideologica del verbale dell'assemblea condominiale, deve essere promosso e svolto nei confronti del Presidente e del Segretario della stessa delibera assembleare, i quali, essendo i redattori e sottoscrittori del verbale, sono anche gli autori del falso. Il Condominio, pertanto, non ha legittimazione passiva, ma può essere chiamato in giudizio affinché la pronuncia faccia stato nei suoi confronti.
Trib. civ. Milano, sez. VIII, 30 settembre 2004, n. 11329

Interpello articolo 11, legge 27 luglio 2000, n. 212. Art. 50-bis d.l. 30 agosto 1993, n. 331. Depositi IVA

Interpello articolo 11, legge 27 luglio 2000, n. 212. Art. 50-bis d.l. 30 agosto 1993, n. 331. Depositi IVA.

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Penale: reato ambientale

RIFERIBILITA', OLTRE CHE AI REATI INTRODOTTI DALL'ART. 2 DEL CITATO D.L., AI SOLI REATI CONNESSI ALLA GESTIONE DEI RIFIUTI E NON A QUELLI AMBIENTALI "IN GENERE"
Con la decisione in esame la Corte, risolvendo un conflitto negativo di competenza tra un G.i.p. circondariale ed il G.i.p. collegiale presso il Tribunale di Napoli costituito ai sensi dell’art. 3 del D.L. n. 90 del 2008 (conv., con modd. in L. n. 123 del 2008), ha affermato che la speciale competenza attribuita agli organi giurisdizionali indicati al predetto art. 3 è limitata ai soli procedimenti penali relativi alla gestione dei rifiuti nella Regione Campania (ovvero ai reati introdotti dall’art. 2 del nuovo testo nonché a quelli previsti e sanzionati dalla Parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006) e non si estende ai reati ambientali in genere.

Tributario: TRIBUTI - IRPEF - INDENNITA' DI FINE RAPPORTO - LAVORO PRESTATO ALL'ESTERO

In tema di IRPEF, la Suprema Corte ha affermato che l'indennità di fine rapporto (nella specie, l'indennità supplementare per licenziamento prevista dall'art. 19 del CCNL per i dirigenti di aziende industriali) corrisposta ad un soggetto non residente è assoggettabile a tassazione, ai sensi dell'art. 23 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, solo nel caso in cui trovi la propria fonte in un rapporto di lavoro dipendente il cui reddito sia assoggettabile ad imposizione in quanto prodotto nel territorio dello Stato, e non anche quando derivi da lavoro dipendente prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, in quanto i redditi derivanti da tale tipo di rapporto sono esclusi in ogni caso dalla base imponibile, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 917 cit..

Cass. Civ. SENTENZA N. 26913 /2008 CAMBIALI - AZIONE CAUSALE FINDATA SU CONTRATTO DI CONTO CORRENTE BANCARIO - RESTITUZIONE DEI TITOLI

La possibilità di procedere in via monitoria ai sensi dell’art. 50 t.u. l. bancaria non fa venir meno, quando il salda-conto o gli estratti conto siano sostenuti da titoli di credito (assegni bancari o cambiali), l’obbligo di offrirli in restituzione e di depositarli in cancelleria ai sensi dell’art. 58 l. assegni. Tale obbligo, assolutamente ineludibile, trova la sua ratio nella necessità di evitare la possibile duplicazione della pretesa di credito e di consentire azioni di regresso.

Cass. Civ. SENTENZA N. 27145/2008 DIRITTI DELLA PERSONALITA’ – PROCESSO CIVILE – POTERE DI IMPUGNAZIONE DEL P.M.

E’ inammissibile, per difetto di legittimazione, l’impugnazione presentata dal P.M. presso la Corte d'Appello avverso il decreto con il quale la stessa Corte d'Appello – applicando il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione (sentenza n. 21748 del 2007) – accoglieva l’istanza congiunta del tutore (padre) e del curatore speciale di persona in stato vegetativo permanente dal 1992 e autorizzava l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione di sondino nasogastrico.
All’esito di una compiuta ricostruzione della vicenda giudiziaria, le S.U., - facendo applicazione di principi consolidati nella giurisprudenza e ripercorrendo le funzioni attribuite al P.M. nel processo civile – hanno, in particolare, chiarito che:
a) al fine di estendere il limitato potere di impugnazione del P.M. non varrebbe l’interpretazione estensiva della nozione di questioni attinenti allo "stato e capacità delle persone", atteso che anche in queste ipotesi alla previsione dell’intervento necessario del P.M. non si accompagna il potere di impugnazione, identificandosi le relative funzioni in quelle che svolge il Procuratore generale presso la Cassazione;
b) non è utile il richiamo alla impugnazione nell’"interesse della legge" di cui al novellato art. 363 c.p.c.;
c) la limitazione del potere di impugnazione del P.M. presso il giudice del merito si sottrae a dubbi di legittimità costituzionale, stante l’evidente ragionevolezza del non identico trattamento di fattispecie in cui viene in rilievo un diritto personalissimo di spessore costituzionale (autodeterminazione terapeutica), rispetto al quale è coerente che il P.M. non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione di decisione di accoglimento della domanda di tutela del titolare, e fattispecie connotate da prevalente interesse pubblico, come quelle cui fa rinvio l’art. 69 c.p.c.

lunedì 10 novembre 2008

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Stranieri: Tar Veneto Sent. 3125/2008

"PER LA CITTADINANZA NECESSARIA LA PROVA DELLA RESIDENZA DECENNALE NEL TERRITORIO DELLO STATO"

L’art. 9, comma 1, lettera f), della legge n. 91/1992 non richiede la mera presenza dello straniero nel territorio della Repubblica, ma prevede quale condizione indefettibile per la concessione della cittadinanza italiana che esso vi risieda legalmente da almeno dieci anni.
La condizione di “residenza legale”, richiesta dall’art. 9 citato, acquista concretezza attraverso il disposto dell’art. 1, comma 2 lettera a), del D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572 , ai sensi del quale è legalmente residente nel territorio dello Stato chi vi risiede avendo soddisfatto le condizioni e gli adempimenti previsti dalle norme in materia di iscrizione anagrafica.
Ne consegue che, per configurare il presupposto della “residenza legale ultradecennale” richiesto dall’art. 9 della legge, non è sufficiente il mantenimento di un’ininterrotta situazione fattuale di residenza, ma è necessario che la stessa sia stata accertata in conformità alla disciplina interna in materia di anagrafe.
Inoltre il requisito della residenza decennale nel territorio della Repubblica italiana deve essere posseduto attualmente ed ininterrottamente alla data di presentazione della domanda, non essendo possibile cumulare periodi diversi, né avvalersi del detto requisito maturato in passato ove, poi, la continuità della residenza sia venuta a mancare

Famiglia: Cassazione Sent 24574/2008

NEL FISSARE LA RESIDENZA FAMILIARE LA SERENITA' CONTA PIU' DEL DENARO

Nel contesto di tali accertate circostanze di fatto, assume rilievo il principio fissato dall'art. 144 c.c., secondo cui la scelta della residenza familiare è rimessa alla volontà concordata di entrambi i coniugi, con la conseguenza che tale scelta non deve soddisfare soltanto le esigenze economiche e professionali del marito, ma deve soprattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i coniugi e quelle preminenti della serenità della famiglia (cfr. Cass. 1981/4067). La Corte di appello, nell'affermare, a sostegno della decisione impugnata, che le preminenti esigenze della famiglia, ai sensi dell'art. 144 c.c., dovevano “essere ragionevolmente identificate con l'esigenza di salvaguardare l'attività professionale del marito, presumibilmente meglio retribuita e quindi di fatto più vantaggiosa per la famiglia medesima (tanto più che poco tempo dopo il matrimonio la L. aveva scoperto di essere incinta)”, non ha correttamente applicato il disposto dell'art. 144 c.c., nel senso sopra enunciato, trascurando di valutare, ai fini dell'accertamento della sussistenza o meno del nesso di causalità tra il comportamento della L. e il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza tra i coniugi, le complessive esigenze della famiglia, nell'ottica imposta dalla citata disposizione, anche alla luce di quelle personali della moglie, proprio in relazione al suo stato di gravidanza e di successiva maternità e quindi alle conseguenti prospettive del nucleo familiare allargato.

Lavoro: Cassazione 9993/2008

LAVORO SUBORDINATO - PROROGA DEL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO - CONDIZIONI
La S.C. ha precisato che la proroga del contratto di lavoro a tempo determinato e' legittima se vi sia identita' dell'attivita' lavorativa rispetto a quella per la quale il contratto e' stato stipulato e ricorrano esigenze contingenti ed imprevedibili che impongano la proroga, sempre che queste ultime siano ontologicamente diverse da quelle che costituivano la ragione dell'iniziale contratto.

penale: Proscioglimento Cassazione SS.UU. Sent 40049 / 2008

SENTENZA – PROSCIOGLIMENTO – CAUSA DI GIUSTIFICAZIONE – FORMULA – ERRONEITÀ – PARTE CIVILE – RICORSO PER SALTUM – INTERESSE
Le Sezioni unite hanno statuito, in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che la formula di proscioglimento «perché il fatto non costituisce reato» deve essere adottata in presenza di una causa di giustificazione, come quella dell’esercizio del diritto di critica nelle condotte di diffamazione. Hanno poi aggiunto che il ricorso immediato per cassazione della parte civile, che non contesti l’accertamento della causa di giustificazione e sia diretto soltanto alla sostituzione della formula, da quella «perché il fatto non sussiste» a quella «perché il fatto non costituisce reato», è inammissibile per difetto di un interesse concreto. Al di là della formula, infatti, la sentenza di proscioglimento, che abbia accertato l’esistenza della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, ha comunque effetti vincolanti nel giudizio civile per il risarcimento.

Tributario : Cassazione Sent 25902/2008

Ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), il contemporaneo utilizzo di più di un’unità catastale come abitazione principale non costituisce ostacolo all’applicazione, per tutte, dell’aliquota prevista per l’abitazione principale medesima, sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo, a tal fine, non il numero delle unità catastali ma l’effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell’immobile complessivamente considerato, ferma restando la spettanza della detrazione prevista dal secondo comma dell’art. 8 d.lgs n. 504 del 1992 una sola volta per tutte le unità.

Condominio: delibere nulle e annullabili

Cass., Sezione II, sentenza del 24 luglio 2008 n. 20394

In tema di ripartizione delle spese, le delibere sono nulle se l'assemblea, esulando dalle proprie attribuzioni, modifica i criteri stabiliti dalla legge, mentre sono annullabili nel caso in cui i suddetti criteri siano violati o disattesi con la conseguenza che la delibera deve essere impugnata nel termine di cui all'art. 1137 u.c. del codice civile.

domenica 2 novembre 2008

Lavoro: Anche il lavoro saltuario può essere subordinato. Cassazione Sent. 31388/2008

secondo il consolidato e condiviso orientamento interpretativo di questa Corte, ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento; l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento alle direttive da questo impartite circa le modalità di esecuzione dell'attività lavorativa, mentre altri elementi, come l'osservanza di un orario, l'assenza di rischio economico, la forma di retribuzione e la stessa collaborazione, possono avere, invece, valore indicativo ma mai determinante; l'esistenza del suddetto vincolo va concretamente apprezzata dal giudice di merito con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che, in sede di legittimità , è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in tale sede se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale (cfr., ex plurimus, Cass. n. 4036/2000; 20669/2004; 7966/2006).

4. Alla luce delle ricordate argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, deve convenirsi che la Corte territoriale ha puntualmente osservato i criteri dettati per l'individuazione della natura del rapporto, riscontrando la sussistenza del vincolo della subordinazione sulla base delle descritte modalità dell'attività lavorativa, contraddistinta dalla messa a disposizione da parte dei lavoratori delle proprie energie lavorative, dall'obbligo di sottostare alle disposizioni impartite loro dal superiore gerarchico e, quindi, dal loro inserimento nell'organizzazione aziendale.

La considerazione svolta sulla natura esecutiva delle mansioni espletate riflette soltanto la ritenuta difficoltà nel poter individuare in relazione alle stesse un'obbligazione di risultato, ma non costituisce il punto decisivo della soluzione accolta, che, come detto, consiste invece nell'essere stato concretamente individuata la sussistenza della subordinazione.

Al contempo la corte territoriale ha congruamente motivato (richiamando condivisa giurisprudenza di questa Corte; cfr. Cass. n. 7304/1999) in ordine alla idoneità del carattere saltuario delle prestazioni a consentire di per sé la loro qualificazione nel senso dell'autonomia e, del pari congruamente , in ordine all'inidoneità dell'effettuazione della ritenuta d'acconto sui compensi a far ritenere che la volontà delle parti si fosse formata nel senso della autonomia del rapporto.

Trattasi dunque di motivazione coerente con le risultanze processuali, immune da vizi logici e da errori giuridici e che pertanto, come tale, si sottrae alle censure svolte.

5. queste ultime, in realtà, evidenziando quelle peculiarità fattuali dei rapporti de quibus che, a giudizio della ricorrente, avrebbero potuto portare ad una diversa soluzione della controversia, si risolvono nella prospettazione di una interpretazione delle risultanze processuali difforme da quella adottata, senza tuttavia indicare emergenze probatorie decisive, tali cioè che, se considerate dal giudice del merito, sarebbero state idonee di per sé a condurre, in termini di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa soluzione della controversia (cfr. ex plurimis, Cass. n. 7000/1993; 1203/2000; 13981/2004).

Deve poi rilevarsi che, avendo ritenuto la Corte territoriale, in base alla valutazione complessiva delle emergenze processuali e con motivazione adeguata e giuridicamente corretta, la natura subordinata dei rapporti, ciò ha comportato l'implicita – ma in equivoca – ripulsa delle argomentazioni della parte volte alla qualificazione dei rapporti stessi in termini di autonomia, cosicché il secondo e il terzo mezzo risultano privi di pregio una volta riscontrata l'infondatezza del primo (dovendo altresì osservarsi che il terzo mezzo presenta anche profili di inammissibilità laddove, affermando che le ricevute in atti «si presentano tutte sottoscritte dai dipendenti», omette di ripotarne puntualmente il contenuto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione).

6. In definitiva il ricorso, pur affermando il contrario, finisce, nella sostanza per richiedere a questa corte che non ne ha il potere, un riesame del merito , e pertanto deve essere rigettato.

Legge pinto: eccessiva durata del Processo. Cassazione Sent. 14/2008

Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

Preliminarmente deve essere esaminata la eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 2 della L. n. 89/01, essendo rilevante ai fini della decisione della presente controversia.

Appare opportuno precisare che piu' decisioni della Corte Europea, emesse a carico dell'Italia in data 10 novembre 2004, hanno affermato che il termine, da prendere in considerazione ai fini della liquidazione dell'indennizzo per la eccessiva durata del processo, è quello della intera durata del procedimento. Tra queste in particolare le pronunce sul ricorso n. 62361/00, proposto da R. P. c. Italia sul ricorso n. 64897/01 proposto da Z. c. Italia.

In tutte le sentenze in questione la Corte Europea, dopo aver contestato l'eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari oggetto del giudizio, ha, altresì, rilevato che, già in passato, in numerose occasioni, aveva avuto modo di riscontrare l'esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione, costituita dall'affastellamento di violazioni dell'art. 6.

Ha ritenuto, pertanto, che ove si riscontri una violazione di questo articolo,come avvenuto nei casi in esame, detta prassi costituisca un'aggravante della violazione stessa.

Dopo aver ricordato che ogni sentenza che accerta una violazione obbliga lo Stato convenuto a porre termine alla violazione stessa e ad eliminarne le conseguenze e che, se la normativa nazionale non prevede altro che una parziale eliminazione, l'art. 41 Cedu consente alla Corte di accordare al ricorrente una soddisfazione in via equitativa, ritenuto che il risarcimento concesso in sede nazionale non costituisse una riparazione appropriata e sufficiente, la Corte, in applicazione del citato art. 41, ha condannato lo Stato italiano al pagamento di ulteriori somme, prendendo quale base per la liquidazione del danno morale la intera durata del procedimento e non il periodo di ritardo (rispetto al termine da ritenersi ragionevole) per la sua definizione.

Passando all'esame della sollevata eccezione di incostituzionalità dell'art. 2, comma 3, lett. a) della legge n. 89/01, il collegio ritiene di doverla dichiarare manifestamente infondata per le seguenti considerazioni.

Il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, della costituzione, nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, - il quale dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – per come è strutturato, diventa concretamente operativo – al fine del giudizio di costituzionalità della norma sopra indicata – solo se vengono determinati quali siano gli «obblighi internazionali», che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni (cfr. sentenze n. 348 e 349 della corte Costituzionale del 22-24-10-2007).

Nel caso di specie, la funzione di dare concreta consistenza agli obblighi internazionali dello stato e, quindi, di integrare e rendere operativo detto parametro, viene assolta dalle norme della CEDU (che in tal caso operano quali «fonti interposte» tra la costituzione e la norma ordinaria, occupando così una posizione intermedia, che porta a riconoscere loro il rango di norme sub-costituzionali).

Va precisato subito, però, che non vengono in considerazione, come fonti interposte, le disposizioni della CEDU in sé e per sé considerate, ma queste nel significato loro attribuito dalla Corte Europea, di cui all'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed attuazione e dotata , quindi, di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti, con la sottoscrizione e ratifica della CEDU, hanno riconosciuto alla stessa (cfr. le succitate sentenze della Corte Costituzionale).

Il principio che le norme della CEDU vivono nella interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte Europea non può essere, ovviamente, inteso nel senso che la giurisprudenza di questa corte si riferisca a tali norme in modo generico, ma nel senso che ogni singola norma vive nella specifica interpretazione che ne da la corte. Il che implica di indagare, al fine di stabilirne la portata, quale è la norma o quali sono le norme, se piu', che vengono interpretate ed applicate in ogni singolo giudizio; quindi, con riferimento al caso che ne occupa, quale norma CEDU deve ritenersi vivente nella interpretazione datane dalle sentenze del 10 novembre 2004, la dove affermano che il periodo da prendersi in considerazione, al fine del risarcimento del danno per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, è l'intero periodo di durata del processo presupposto.

Con l'eccezione di incostituzionalità proposta, il ricorrente indica, quale fonte intermedia, integrativa dell'art. 117 della Costituzione, l'art. 6 della Convenzione, assumendo ovviamente che questa è la norma che viene in considerazione, nella interpretazione datane dalla Corte Europea, affermando – con riferimento al criterio utilizzabile per la liquidazione dell'indennizzo dovuto per la violazione del termine ragionevole di durata del processo - «che, una volta superata la durata ritenuta ragionevole, ogni anno del procedimento va indennizzato, non potendosi esentare gli anni di una durata ragionevole che non c'è stata».

A seguito di tale affermazione il citato art. 6 della Convenzione dovrebbe ritenersi violato dall'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, in quanto, al comma 3, lett. a) tale norma dispone che per determinare l'entità della riparazione «rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1».

Ma vi sono seri argomenti per escludere che, nelle sentenze del 10 novembre 2004, la corte europea abbia elaborato, perché imposto dall'oggetto del giudizio, il summenzionato criterio con riferimento all'art. 6 della Convenzione (nella sentenza Ernestina Z. c. Italia, al paragrafo 4, si afferma testualmente: «La ricorrente ha addotto la violazione dell'articolo 6 paragrafo 1 della convenzione in merito alla lunghezza dei procedimenti civili di cui era parte in causa. Successivamente, la ricorrente indicava che non stava contestando il modo in cui la corte d'appello aveva valutato i ritardi, ma l'ammontare irrisorio del risarcimento accordatole»)

L'art. 6 della CEDU dispone che «ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile………».

Com'è agevole constatare in base alla sua chiara formulazione, l'art. 6 della convenzione riconosce il diritto ad un processo equo ed enuncia le caratteristiche che questo deve possedere per essere tale, e stabilendone così il contenuto, individua anche quali sono gli obblighi cui gli stati contraenti devono conformarsi nell'organizzare il loro sistema giudiziario, sicché le varie richieste di giustizia possano avere risposta a mezzo di un processo che, rispondendo alle caratteristiche imposte da detta norma, possa ritenersi equo.

Questa disposizione individua, dunque, quale è il contenuto del diritto ad un equo processo e, conseguentemente, le modalità delle sue possibili violazioni; non disciplina certo le conseguenze delle violazioni e le modalità della loro ripartizione.

La riparazione della violazione trova, invece, la sua disciplina di principio: nell'art. 41 della CEDU, sull'equa soddisfazione, il quale dispone che «se la corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa»; nonché nell'art. 13 della Convenzione, sul diritto ad un ricorso effettivo, il quale dispone che «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali».

Tenendo conto del contenuto delle disposizioni su riportate e della loro portata, si può logicamente e fondatamente ritenere che sia riferibile all'art. 6 la giurisprudenza della Corte che individua i termini di durata del processo, superati i quali si verifica la violazione del termine ragionevole di durata dello stesso (ad es. riguarda certamente la interpretazione dell'art. 6 l'avere stabilito che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e quello di due anni per la durata del giudizio di secondo grado), ma non certo la giurisprudenza che individua i criteri da utilizzare per determinare l'ammontare del risarcimento, riguardando questa non la violazione del diritto all'equo processo, ma la determinazione di un'equa soddisfazione.

Se così è, l'art. 2, comma 3, lett. a), della legge n. 89/01, - che, nella complessiva disciplina dettata dalla legge citata sull'equa riparazione, si limita solamente ad indicare il criterio da utilizzare per determinare l'importo della riparazione dovuto per la violazione del termine ragionevole di durata del processo presupposto – non può fondatamente ritenersi – dato il campo di applicazione, che giova ripeterlo non è quello dell'accertamento della violazione, ma quello consecutivo della sua riparazione – in contrasto con la norma interposta costituita dal predetto art. 6 della Convenzione e, quindi, con l'art. 117 della Costituzione.

Con le decisioni del 10 novembre 2004, che qui vengono in considerazione, la corte Europea ha solamente affermato, come detto, la inadeguatezza dell'indennizzo, che può essere liquidato dal giudice nazionale, facendo applicazione dell'art. 2 della legge n. 89/01, senza però escludere la complessiva attitudine della legge n. 89/01 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, essendo stata detta attitudine riconosciuta dalla stessa Corte Europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, proposto da Scordino c. Italia (cfr. in tal senso cass. n. 8603 del 2005; cass. n. 8568 del 2005), avendo questa affermato, addirittura nella citata sentenza Z. che vari tipi di ricorso possono correggere la violazione in modo adeguato: uno tendente ad accelerare la procedura e l'altro di natura indennitaria (cfr. par. 79); che gli Stati possono anche scegliere di dare vita soltanto al ricorso per indennizzo, come ha fatto l'Italia, senza che questo ricorso possa essere considerato come mancante di efficacia (cfr. par. 80); che, quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un ricorso per indennizzo, la Corte deve lasciargli un piu' grande margine di valutazione, perché possa organizzare questo ricorso interno in modo coerente con il suo sistema giuridico e le sue tradizioni e in conformità con il tenore di vita del paese (cfr. par. 82). Giova rilevare, altresì, che il citato art. 2, comma 3, lett. a) della legge 89/01, costituisce particolare applicazione dell'art. 111 della costituzione, il quale, dopo aver recepito pienamente i canoni del giusto processo fissati dall'art. 6, p. 1, della Convenzione, dispone «che la legge ne assicura la ragionevole durata», così sancendo che, nello stabilire quale durata debba ritenersi ragionevole, non si possa prescindere da quella minima imposta da una corretta applicazione, da parte del giudice, della disciplina che lo struttura.

Atteso quanto procede, deve necessariamente ritenersi che il diverso parametro di calcolo dell'equa riparazione, introdotto dalla corte europea – una volta esclusa la fondatezza della denuncia di incostituzionalità del parametro di calcolo di cui al piu' volte citato articolo 2 – produce il solo effetto di aprire, alla «vittima» della violazione, la via sussidiaria dell'applicabilità dell'art. 41 della CEDU sull'equa soddisfazione, il quale dispone, come già su riferito, che «:se la corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa».

Il collegio ritiene, pertanto, che ai fini dell'indennizzo del danno non deve aversi riguardo, come pretende il ricorrente, ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata (cfr. per tutte cass. n. 21597 del 2005), essendo il giudice nazionale tenuto, nella ipotesi in esame, ad applicare la legge dello Stato, e, quindi, il disposto dell'art. 2, comma 3, lett. a) della legge n. 89/01, non potendo darsi alla giurisprudenza della CEDU, in questione, diretta applicazione nell'ordinamento giuridico italiano con il disapplicare la norma nazionale su indicata (come invece sarebbe possibile per la normativa comunitaria), avendo la Corte Costituzionale chiarito, con le citate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione EDU non era un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti, è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano «obblighi» per gli Stati contraenti (e quindi anche quello dei giudici nazionali di uniformarsi ai parametri CEDU, esclusi i casi, come quello di specie, in cui siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare), ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omesso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.

Il giudice a quo ha, pertanto, correttamente applicato il criterio secondo cui rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole.

Ha violato, però, i parametri indicati dalla CEDU per l'accertamento del periodo di ragionevole durata del processo presupposto (la CEDU ha indicato in tre anni per il primo grado ed in due anni per il secondo grado il termine di durata da ritenersi ragionevole), statuendo che, dei dieci anni di durata, il periodo da considerarsi indennizzabile, perché eccedente la ragionevole durata del processo presupposto, è di anni quattro, dovendosi ritenere ragionevoli il termine di anni tre, per la durata del giudizio di primo grado, e di anni tre, per la durata del giudizio di secondo grado.

Il giudice a quo, avendo liquidato per ogni anno il ritardo soltanto euro 200,00, ha inoltre, violato i parametri CEDU da utilizzarsi per la valutazione del danno morale, avendo la corte indicato, quale base di calcolo, una somma variabile tra i 1000,00 ed i 1.500,00 euro annui.

Per quanto precede, ritiene il collegio che il ricorso possa essere accolto per quanto di ragione con conseguente cassazione della sentenza impugnata e decisioni nel merito, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., determinando in anni cinque (tre+due) il periodo ragionevole di durata e nei residui anni cinque il periodo di durata non ragionevole ed in euro 1.000,00 l'indennizzo per ogni anno eccedente la ragionevole durata, non ritenendo il collegio che le ragioni indicate nel ricorso possano ritenersi valide al fine di adottare una base di calcolo superiore a quella rappresentata dal parametro minimo.

Conseguentemente la Presidenza del Consiglio dei Ministri va condannata a pagare al ricorrente la somma di euro 5.000,00 (ottenuta moltiplicando 5 anni – che sono quelli da ritenersi eccedenti la durata ragionevole – per euro 1000,00), con gli interessi come per legge dalla domanda all'effettivo soddisfo, oltre alla refusione delle spese sia del giudizio di merito che di quello di legittimità – da distrarsi in favore del difensore avv. Mario Candiano, che se ne è dichiarato antistatario – che appare giusto liquidare per il giudizio di merito in complessivi euro 675,00, comprensivi di rimborso spese generali, oltre ad I.V.A. e C.A.P., e per il giudizio di legittimità in complessivi euro 700,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Famiglia: diritti del convivente more-uxorio dopo la morte

Mentre il matrimonio, in mancanza di una diversa pattuizione da parte dei coniugi, determina automaticamente tra gli stessi l’istaurazione del regime della comunione dei beni (art.177ss c.c.), la convivenza non comporta alcun effetto di tale specie e i conviventi, pertanto, restano padroni ciascuno dei propri beni e dei propri acquisti, in regime di separazione.
Allorché uno dei conviventi more uxorio muoia, l’altro non ha alcun diritto ereditario.
Infatti, l’art.565 c.c non annovera il convivente more uxorio nella categoria dei successibili ab intestato del de cuius.
Quindi nel caso specifico sottopostomi la compagna del padre, alla morte di questi, non avrà per legge alcun diritto sulle due proprietà accennate.
Il padre potrebbe disporre a favore della compagna solo mediante testamento, ma sempre nei limiti della quota disponibile e mai intaccando la quota legittima (o riserva) spettante ai legittimari (figli eredi) che, nell’ipotesi contraria, potrebbero agire per ottenere la reintegrazione della stessa mediante la riduzione delle disposizioni testamentarie eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre.
Stesso discorso per le donazioni che il padre avesse effettuato in vita a favore della convivente more uxorio

Condominio: Privacy: obbligo amministratore fornire nominativi condomini morosi

1. Con la nota in oggetto, che fa seguito all'incontro tenutosi presso la sede dell'Autorità con rappresentanti dell'Anaci il 3 luglio u.s. (occasionato dalla sentenza Cass. S.U. 8 aprile 2008 n. 9148), codesta Associazione ha formulato un quesito in ordine alla liceità della comunicazione nei confronti di fornitori di beni e servizi condominiali (di regola a cura dell'amministratore) di dati personali riferiti ai partecipanti alla compagine condominiale. In particolare, codesta Associazione precisa che i dati personali oggetto di comunicazione, senza che sia necessario il previo consenso dei condomini interessati, consisterebbero nei nominativi di quelli morosi rispetto al pagamento della somma dovuta e delle rispettive quote millesimali.

2. Com'è noto il Garante, traendo spunto dalle segnalazioni pervenute, ha adottato il 18 maggio 2006 un provvedimento generale relativo al trattamento dei dati personali connesso alle attività di gestione dei condomini, precisando che le informazioni trattate possono essere riferite a ciascun partecipante alla compagine condominiale in quanto funzionali all'amministrazione comune (cfr.punto 2.1)[1].Come chiarito nel medesimo provvedimento, dette informazioni possono essere trattate, per finalità di gestione ed amministrazione del condominio, a seconda dei casi, ai sensi dell'art.24, comma 1, lettere a), b)o c) del Codice [2].

3. Anche a seguito della sentenza richiamata della Suprema Corte, non si ravvisa nella disciplina della protezione dei dati personali alcun ostacolo a detta comunicazione.

Infatti, il trattamento dei dati personali riferito ai singoli condomini può essere effettuato dai fornitori di beni e servizi condominiali in assenza del consenso degli interessati per dare esecuzione agli obblighi di un contratto stipulato dai partecipanti alla compagine condominiale, ancorchè di regola tramite l'amministratore, (art. 24 comma 1, lettera b del Codice) ed eventualmente per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria (art.24 comma 1, lettera f) del Codice)[3].

In base ai principi di protezione dei dati personali le informazioni oggetto di trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti (tali possono ritenersi quelle che consentono di identificare i condomini obbligati al pagamento del corrispettivo per l'esecuzione dei contratti di fornitori di beni e servizi, le rispettive quote millesimali, e, se del caso, le ulteriori informazioni eventualmente necessarie a determinare le somme individualmente dovute).

Penale: Cassazione Sent. n. 35286 del 15/09/2008

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITA' STRANIERE - M.A.E. - DIVIETO DI CONSEGNA DEL CITTADINO PER FINI DI ESECUZIONE PENALE - APPLICABILITA' ALLO STRANIERO RESIDENTE O DIMORANTE - ESCLUSIONE
La Corte, nel confermare l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la limitazione del motivo di rifiuto della consegna per fini di esecuzione penale di cui all’art. 18, lett. r), della l. n. 69/2005 al solo cittadino italiano non si pone in contrasto con i principi della Decisione quadro 2002/584/GAI, ha osservato che gli Stati membri non sono obbligati ad estendere agli stranieri residenti o dimoranti le medesima garanzie riconosciute ai propri cittadini, atteso che l’art. 4, punto 6, della Decisione quadro enuncia ipotesi di rifiuto facoltative la cui trasposizione in una specifica disposizione interna è affidata all’autodeterminazione decisoria dei singoli legislatori nazionali. Si tratta, dunque, di una scelta di politica criminale rispondente ad esigenze del proprio ordinamento ed a canoni di valutazione discrezionale immuni da possibili censure di irragionevolezza, sulla quale nessuna incidenza puo’ esercitare la recente sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 luglio 2008, C- 66/08, Kozlowsky, che si è limitata ad offrire l’interpretazione uniforme della nozione di residenza richiamata nel su citato art. 4, punto 6, senza esprimersi in via generale sulla correttezza o meno delle normative nazionali attuative della Decisione quadro in tema di rifiuto della consegna. (Al riguardo v., in precedenza, Sez. VI, 25 giugno 2008 – 26 giugno 2008, n. 25879, Vizitiu, Rv. 239946).

lunedì 27 ottobre 2008

Immobili: cessione e locazione - un utile guida

LOCAZIONE
Le locazioni di immobili abitativi effettuate da soggetti che agiscono nell'esercizio di imprese, arti o professioni nei confronti di qualsiasi soggetto sono sempre esenti dall'applicazione dell'imposta e scontano un'imposta di registro pari al 2%.

Diversa è la situazione per i fabbricati strumentali (categorie A10/B/C/D), il cui regime naturale rimane sempre l'esenzione, tranne tre casi di applicazione dell'Iva:
a) Obbligo di applicazione dell'Iva nei confronti di soggetti che effettuano operazioni esenti per almeno il 75% sul totale (ad esempio banche, imprese di assicurazione);
b) Obbligo di applicazione dell'Iva sulla locazione effettuata nei confronti di cessionari non soggetti passivi di imposta (ad esempio i non titolari di partita Iva);
c) Facoltà per il locatore di applicazione dell'imposta sui canoni di locazione.
È questa ultima possibilità di optare per il regime di imponibilità che consente alle imprese di gestione immobiliare, comprese quelle di leasing, di mantenersi nel regime Iva senza subire la penalizzazione dell'indetraibilità dell'imposta, compresa quella relativa all'acquisto dell'immobile, mediante la procedura della rettifica.

Non sono ancora chiare le modalità di esercizio dell'opzione che dovrà essere esercitata con la presentazione all'Agenzia delle Entrate di una dichiarazione entro il 1° ottobre contenente gli elementi essenziali del contratto di locazione al fine dell'assolvimento dell'imposta di registro dell'1%, ma sarà la stessa Agenzia ad emanare un provvedimento del Direttore entro il 15 settembre in cui saranno stabiliti modalità e termini degli adempimenti.

CESSIONE
Anche per quanto riguarda le cessioni di edifici, la regola generale è l'esenzione dall'imposta sul valore aggiunto, con la conseguente applicazione dell'imposta proporzionale di registro.

A questa regola generale si sottrae tutta una serie di eccezioni nelle quali occorre applicare l'aliquota Iva alla base imponibile rappresentata dal prezzo pattuito per la compravendita.

Fabbricati abitativi: la relativa cessione è soggetta ad Iva se effettuata da imprese costruttrici o di ripristino entro quattro anni dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione o di recupero (vale la data di comunicazione di fine lavori) Fabbricati strumentali: sono quattro le ipotesi di relativa cessione soggetta ad Iva.
a) Cessione da parte di imprese costruttrici o di ripristino che hanno ultimato gli interventi da meno di quattro anni;
b) Cessione da parte di soggetti passivi d'imposta nei confronti di acquirenti soggetti passivi che effettuano operazioni esenti almeno pari al 75% del totale;
c) Cessione da parte di soggetti passivi verso cessionari non soggetti passivi d'imposta;
d) Scelta del cedente di optare per il regime Iva nel contesto dell'atto di cessione.
Il decreto ha previsto tuttavia l'applicazione di una imposta ipocatastale pari al 4% (imposta ipotecaria al 3% e imposta catastale all'1%) per la vendita di fabbricati strumentali fatta da un soggetto Iva, sia che si tratti di operazione esente sia di operazione cui l'Iva si applica ordinariamente.

RETTIFICA
Le modifiche alle regole Iva con il passaggio dall'imponibilità all'esenzione delle locazioni e delle cessioni dei fabbricati anche strumentali, avrebbero provocato un rilevante danno per le imprese del settore, tenute secondo l'articolo 19-bis, comma 3 del Dpr 633/72 ad effettuare complicati calcoli di rettifica delle detrazioni per salvaguardare il principio della neutralità dell'Iva.

Il legislatore nel provvedimento di conversione del decreto legge 223/06 ha limitato i casi di rettifica della detrazione dell'Iva sugli acquisti effettuata in passato.

Per i fabbricati abitativi posseduti al 4 luglio 2006 occorre distinguere due casi:
a) Per le società che non hanno costruito o ripristinato gli edifici abitativi (immobiliari di rivendita o qualsiasi altro tipo di società) non scatta mai la rettifica della detrazione prevista dall'articolo 19-bis 2, indipendemente dall'anno di acquisto del fabbricato.
b) Per le imprese costruttrici o di ripristino si apre un doppio binario: se la costruzione o l'intervento è terminato prima del 4 luglio 2002 (quattro anni prima dell'entrata in vigore del decreto), non si rettifica la detrazione né per cambio di regime né di destinazione; se invece i lavori sono finiti dopo il 4 luglio 2002 si applicherà la rettifica all'atto del primo impiego di locazione o cessione.
Per quanto riguarda i fabbricati strumentali sono tre le ipotesi da prendere in considerazione:
a) Non scatta la rettifica se l'impresa opta per l'imponibilità nel primo atto stipulato successivamente all'entrata in vigore della legge di conversione;
b) Non scatta la rettifica se la locazione o vendita è soggetta obbligatoriamente (vedi casi descritti in precedenza) ad Iva;
c) La rettifica scatta se l'impresa non opta per l'imponibilità

Srl Unipersonali - responsabilità del socio unico - un commento

La responsabilità per le obbligazioni della Srl è illimitata per il socio unico solo quando la Srl unipersonale si trova in una situazione di insolvenza, e si verifica inoltre una delle seguenti condizioni:

1) i conferimenti non sono stati effettuati al 100%;
2) la pubblicità non è stata effettuata ai sensi dell'art. 2470 c.c., comma 4 (che prevede l'iscrizione nel registro delle imprese della dichiarazione contenente i dati dell'unico socio).

La precedente disciplina (vecchio art. 2475 c.c., comma 3), che consentiva la costituzione della Srl in modo unilaterale, prevedeva (vecchio art. 2362 c.c.) che la responsabilità era illimitata per il socio unico in qualsiasi caso, ossia senza la condizione dei conferimenti inferiori al 100%, o della mancata pubblicità.

Si tratta, come è evidente, di un enorme vantaggio rispetto al passato, essendo ora libero il socio unico dai rischi conseguenti al cattivo andamento degli affari della Srl, che nel precedente regime comportavano la conseguenza di dover sopportare con il proprio patrimonio le richieste dei creditori sociali.

In conclusione, se in precedenza lo svolgimento di un'attività economica attraverso la Srl unipersonale non assicurava il vantaggio tipico delle società di capitali, ossia la limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali, ora tale vantaggio è garantito dalla legge, a condizione però di rispettare la disciplina codicistica, che prevede il versamento al 100% dei conferimenti in denaro, e l'iscrizione nel registro delle imprese della dichiarazione contenente i dati del socio unico

Esecuzione immobiliare, vizi aggiudicazione

Una volta delegate le operazioni di vendita al notaio, i vizi dell’aggiudicazione dichiarata dallo stesso notaio devono essere prima fatti valere con il reclamo e poi contro l’ordinanza del giudice che, rigettando il reclamo, assume a contenuto del proprio atto esecutivo l’aggiudicazione notarile. Ne consegue che i detti vizi, se non fatti valere nelle forme suindicate, non possono più essere dedotti mediante l’impugnazione del successivo decreto di trasferimento.
Cassazione Sentenza n. 24810 dell'8 ottobre 2008

Lavoro: sussistenza mobbing

La responsabilità del datore di lavoro per mobbing sussiste anche ove, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente, per la colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo; né ad escludere tale responsabilità, quando il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero tardivo intervento "pacificatore", non seguito da concrete misure e da vigilanza.
Cassazione Sentenza n. 22858 dell'11 settembre 2008

Penale - INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - GETTO PERICOLOSO DI COSE - CONFIGURABILITA' - CONDIZIONI - SUPERAMENTO DEI LIMITI TABELLARI

Con la decisione in esame la Corte, dopo aver operato un’approfondita ricognizione degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali formatisi in materia di inquinamento elettromagnetico, ha affermato: a) che il fenomeno dell’emissione di onde elettromagnetiche rientra, per effetto di una interpretazione estensiva, nell’ambito dell’art. 674 cod. pen.; b) che detto reato è configurabile solo quando sia stato provato, in modo certo ed oggettivo, il superamento dei limiti di esposizione o dei valori di attenzione previsti dalle norme speciali e sia stata obiettivamente accertata un’effettiva e concreta idoneità delle emissioni ad offendere o molestare le persone, ravvisabile non in astratto ma in concreto; c) che il mero superamento dei limiti tabellari, non accompagnato dalla prova certa ed oggettiva di un effettivo e concreto pericolo di nocumento per la salute e la tranquillità delle persone, configura solo l’illecito amministrativo previsto dall’art. 15 della legge 22 febbraio 2001, n. 36.
Cassazione SENTENZA N. 36845 UD.13/05/2008

Condominio: Pagamento spese, valore della controversia

Cass. civ., sez. II ord., 13 novembre 2007, n. 23559

Nei giudizi di impugnativa di delibera assembleare, con riferimento all'azione avente ad oggetto il pagamento delle spese condominiali secondo approvazione dell'assemblea del condominio, il valore della controversia va determinato in relazione alla parte della relativa delibera impugnata, e non alla quota di spettanza del condomino che l'ha impugnata, atteso che l'oggetto del contendere coinvolge i rapporti di tutti i condomini interessati alla ripartizione, e, quindi, l'interezza di tale importo.

lunedì 20 ottobre 2008

Condominio: Comunicati in bacheca e rischio diffamazione

Cassazione sez. V sentenza 31 marzo 2008 n. 13540

Rischia una condanna per diffamazione chi affigge in un luogo aperto al pubblico, all'interno del condominio, il nome e cognome dell'inquilino che resta indietro con i pagamenti.

In particolare gli Ermellini hanno precisato che "integra il delitto di diffamazione il comunicato, redatto all'esito di un'assemblea condominiale, con cui un condomino venga indicato come moroso nel pagamento delle spese, qualora essa venga affisso in un luogo accessibile – non già ai soli condomini dell'edificio per i quali può sussistere un interesse giuridicamente apprezzabile alla conoscenza dei fatti – ma ad un numero indeterminato di altri soggetti: in tal caso, invero, il requisito della comunicazione con più persone si può ritenere in re ipsa".

Giudice Pace, stop al rito del lavoro per i sinistri con lesione

Cassazione Sez.III Civ. ordinanza 07.08.2008 n° 21418

... Il Collegio condivide le argomentazioni della relazione sul punto relativo alla statuizione da rendere sulla competenza e, pertanto, ritiene debba affermarsi il seguente principio di diritto: «Deve escludersi che la norma dell'art. 3 della l. n. 102 del 2006, nel prevedere che alle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, si applicano le norme processuali di cui al libro Il, titolo IV, capo I del codice di procedura civile, abbia attribuito al Tribunale la competenza su tali cause, così sottraendole alla previsione di competenza del giudice di pace per materia con limite di valore, di cui all'art. 7, secondo comma, c.p.c.».
Sciogliendo la riserva formulata nella relazione il Collegio ritiene, inoltre, è opportuno chiarire se il rito speciale richiamatli da detta norma debba trovare applicazione quando le cause indicate dal citato art. 3 siano di competenza del giudice di pace e debbano essere da tale giudice trattate. Il chiarimento va dato nel senso che deve escludersi che l'intentio legis di cui è espressione l'art. 3 si sia voluta indirizzare nel senso di disporre l'applicabilità delle norme del c.d. rito del lavoro anche quando le cennate controversie debbano essere trattate dinanzi al giudice di pace, onde la norma in discorso si deve intendere riferita soltanto all'ipotesi di causa davanti al Tribunale.

Lavoro: LAVORO SUBORDINATO – TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO

L'adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure dirette ad evitare eventi dannosi per la salute dei lavoratori, non si esaurisce nell'osservanza di misure dirette ad evitare l’evento previste da specifiche disposizioni di legge, comprendendo anche misure “innominate”, necessarie per la particolarità del lavoro (giubbotto di protezione per dipendenti di istituti di vigilanza), per il cui funzionamento, ove esigano quotidianamente la collaborazione del dipendente, il datore di lavoro deve eseguire il relativo controllo con adeguata continuità.
SENTENZA N. 18376 DEL 03/07/2008

Penale: DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA – MODELLO F24 – NATURA GIURIDICA - ATTESTATO DEL CONTENUTO DI ATTI

La S.C. ha affermato che il modello F24, utilizzato per il pagamento di contravvenzioni concernenti irregolarità fiscali, ha natura giuridica di attestato del contenuto di atti, sicchè la relativa falsificazione ad opera di un privato integra il delitto di cui agli artt. 478 e 482 cod. pen..

Costituzionale - PROCESSO PENALE – SEQUESTRO PROBATORIO – RIESAME – AVVISO D’UDIENZA AL DIFENSORE DELLA PERSONA OFFESA – MANCATA PREVISIONE

E’ stata dichiarata manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 324 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede che l’avviso della data fissata per l’udienza di riesame del sequestro probatorio sia notificato anche alla persona offesa che abbia nominato un difensore ed al difensore stesso. Non sussiste violazione degli artt. 3 e 24 Cost., giacché, da un lato, è evidente l’eterogeneità tra la posizione della persona offesa e le situazioni dell’imputato e del pubblico ministero, mentre, dall’altro, il legislatore gode di discrezionalità nel modulare la configurazione della tutela processuale della persona offesa.

lunedì 13 ottobre 2008

Condominio: DDL Carfagna

Prime riflessioni
Prostituzione e regolamento condominiale.

Il regolamento condominiale di un edificio, ammesso che esista, atteso che nei condominii con meno di dieci proprietari il documento non è obbligatorio, può avere carattere contrattuale o assembleare.

Nel primo caso il regolamento oltrechè disciplinare l’uso delle cose comuni può limitare i diritti dei proprietari anche sulle proprietà esclusive, ad esempio vietare l’uso dell’appartamento a sedi di partito, scuole di ballo e danza, ecc. Non mi risulta comunque che sia previsto il divieto di utilizzo dell’immobile per esercitare la prostituzione. Nel caso è vagamente indicato il divieto di far uso della proprietà privata provocando rumori, suoni, vibrazioni eccedenti la normale tollerabilità, o contro il decoro dell’edificio.

Se invece il regolamento è assembleare, ovvero approvato dall’assemblea, non possono essere inserite, nel documento, limitiazioni all’uso della cosa privata.

La Cass.Civ. Sez.II 29/08/1998 n° 8622, la Cass. civile, sez. II, 18-04-2002, n. 5626, la Cass. civile, sez. Unite, 30-12-1999, n. 943, la Corte App. di Milano 24-02-1995, il Giudice conciliatore di Bari 10-10-1989, n. 308, il Trib. di Milano, sez. VIII, 24-09-1987 ilTrib. di Messina 08-04-1981, tanto per citare alcune sentenze, si sono espresse chiaramente sulla nullità dei vincoli e restrizioni che l’assemblea possa porre suull’uso della proprietà privata, nullità che trova origine dal Codice Civile.

Da sottolineare come recentemente un nuovo orientamento abbia acconsentito all’inserimento di determinate clausole all’interno del regolamento, che dovrà essere approvato all’unanimità.

Via alternativa, ma seguibile dal singolo privato sarebbe nei nuovi contratti di locazione occorre inserire, da subito, un patto che ponga il “divieto di esercizio della prostituzione in qualsiasi forma, nonche’ di attivita’ connesse”, pena la risoluzione del contratto per inadempimento ai sensi dell’art 1456 del Codice Civile.