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lunedì 30 giugno 2008

Unico 2008: ritenute d'acconto solo certificate

La Corte di cassazione con sentenza n. 12072 del 14 maggio 2008 ribadisce che per la detrazione delle ritenute in UNICO 2008 è necessaria la certificazione.
La severità della sentenza è poco condivisibile e penalizza quanti, professionisti, agenti, ecc.. sono soggetti al regime della ritenuta.

La normativa attuale non richiede l'allegazione alla dichiarazione dei redditi della certificazione relativa alle ritenute alla fonte. Attualmente però grava sul contribuente l'obbligo di conservare la documentazione relativa alle ritenute d'acconto per tutto il periodo di decadenza del potere di accertamento da parte dell'ufficio.
Il commercialista dovrà quindi sollecitare il cliente ad effettuare tempestivamente le relative modifiche.

Decreto n. 112/2008

Emanate le nuove disposizioni urgenti in materia di sviluppo economico, semplificazione, competitività, stabilizzazione della finanza pubblica e perequazione tributaria.

E' quanto prevede il Decreto Legge 25 giugno 2008, n. 112 - pubblicato in Gazzetta Ufficiale 25 giugno 2008, n. 147 - che, insieme al Disegno di legge collegato, compone la c.d. manovra d'estate: una finanziaria triennale che ha l'obiettivo di promuovere lo sviluppo economico, semplificare e razionalizzare l'organizzazione amministrativa, restituire potere d'acquisto alle famiglie.

In particolare, il provvedimento contiene misure su:

imprese ed energia;
sterilizzazione iva carburanti;
piano casa ed infrastrutture;
Expo Milano 2015;
liberalizzazioni;
editoria;
Enti pubblici;
trattamento dei dati personali;
studi di settore ed elenco clienti fornitori;
class action e tutela dei consumatori;
certificazioni e prestazioni sanitarie;
piano industiale della pubblica amministrazione;
forze armate.
Per una visione più dettagliata delle modifiche introdotte dal Decreto Legge n. 112/2008 si rimanda alla tabella delle novità.
da
(Altalex, 27 giugno 2008)

Responsabilità del radiologo per mancata individuazione di formazioni tumorali

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 19 marzo - 30 aprile 2008, n. 17505

(Presidente Marini - Relatore Brusco)

Osserva

I. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 5 aprile 2004 - giudicando sull’appello proposto contro la sentenza 9 maggio 2003 del Tribunale di Y. che aveva condannato P. U. alla pena di mesi due di reclusione per il delitto di cui all’art. 590 cod. pen. - ha riformato la sentenza di primo grado dichiarando non doversi procedere nei confronti del predetto per essere il reato estinto per prescrizione.

I giudici di merito hanno accertato i fatti oggetto del presente processo rilevando che all’imputato, medico radiologo presso il Centro “X” di Y, era stato addebitato di non aver valutato correttamente le diverse mammografie eseguite sulla persona di G. G. dal 1993 al 1998 che evidenziavano la presenza di un addensamento del parenchima, sintomo della presenza di una formazione tumorale, cagionando quindi alla predetta lesione gravissime a seguito di un intervento chirurgico radicale, eseguito nel 1998, con mastectomia totale.

I giudici di appello, dopo aver riportato il testo della motivazione contenuta nella sentenza di primo grado, hanno accertato in particolare che il dott. P. non aveva rilevato il 30 ottobre 1995, la presenza di due aree distanti tra loro circa 30 cm. “fortemente sospette di rappresentare lesioni di tipo neoplastico”; la presenza di queste aree doveva indurre il radiologo a svolgere approfondimenti diagnostici che avrebbero consentito un’immediata resezione chirurgica.

La sentenza impugnata, partendo dal presupposto che nel 1995 si sarebbe dovuto comunque procedere ad un intervento di mastectomia identico a quello effettuato nel 1998, ha mostrato però di non condividere la tesi del primo giudice - secondo cui l’evento di danno era costituito dall’aggravamento del rischio di metastasi - e ha invece ritenuto che, nell’arco di tempo indicato, si fosse verificato un aggravamento della patologia, e quindi della malattia, costituito dalla crescita della lesione tumorale (le due masse erano cresciute una da 20 a 25 mm., l’altra da 10 a 15 mm.). In buona sostanza la Corte di merito ha ritenuto che si fosse verificato un aggravamento della malattia preesistente e ciò consentiva di ritenere realizzato il delitto di lesioni.

Quanto all’esistenza del rapporto di causalità la sentenza rileva che, se la lesione tumorale fosse stata diagnosticata nel 1995, non si sarebbe sicuramente verificato quell’aggravamento costituente lesione successivamente accertato.

Risultando peraltro decorso il termine di prescrizione la Corte d’appello ha dichiarato l’estinzione del reato non essendo applicabile, per le ragioni esposte, l’art. 129 c.p.p.

II. Contro questa sentenza sono stati proposti due ricorsi. Con il primo si deduce anzitutto il difetto di correlazione tra contestazione e sentenza; la contestazione riguardava la possibilità che una diagnosi tempestiva avrebbe consentito di procedere ad un intervento di quadrantectomia e non all’intervento demolitivo di mastectomia. Non potevano quindi i giudici di merito condannare l’imputato per l’ingrandimento della lesione tumorale mai contestatogli.

Con il secondo motivo del primo ricorso si deduce il vizio di motivazione perché la sentenza impugnata avrebbe erroneamente affermato, contrariamente al vero, che l’imputato non aveva mai contestato la riferibilità delle radiografie a G. G.

III. Con il secondo ricorso si deduce anzitutto, con il primo motivo, la violazione dell’art. 590, in relazione all’art. 582 cod. pen., e la conseguente inosservanza dell’art. 129 cod. proc. pen. Il ricorrente prende atto che la Corte di merito ha corretto l’errore contenuto nella sentenza di primo grado escludendo che l’aggravamento del rischio di metastasi possa costituire l’evento del delitto di lesioni colpose. Ha però ugualmente errato, secondo il ricorrente, nell’istituire una correlazione automatica tra la modesta crescita delle dimensioni della lesione tumorale e l’incremento della malattia.

Il ricorrente richiama le conclusioni del perito per rilevare come, in realtà, il lieve aumento della formazione tumorale non avesse in effetti provocato alcun aggravamento (in particolare la diffusione di metastasi) perché la mera crescita, peraltro assai modesta, della massa tumorale non aveva avuto in concreto alcun effetto pregiudizievole rispetto alle menomazioni proprie della patologia.

In ogni caso non sarebbe giuridicamente sostenibile la riconducibilità al concetto di lesione personale di un mero accrescimento delle dimensioni della formazione neoplastica in mancanza di alcuna alterazione funzionale dell’organismo dovendosi intendere il termine malattia come un processo patologico necessariamente accompagnato da apprezzabili disturbi funzionali dei quali non si ha traccia nell’evoluzione della patologia della G. e non essendo sufficiente una mera alterazione anatomica perché possa ritenersi l’esistenza della malattia.

Se dunque la Corte di merito avesse fatto corretta applicazione di questi principi avrebbe dovuto applicare l’art. 129 comma 2 c.p.p.

IV. Ciò premesso si osserva che i motivi contenuti nel primo ricorso sono inammissibili: il primo perché manifestamente infondato, il secondo perché proposto per motivi non consentiti nel giudizio di legittimità.

Quanto alla dedotta violazione del principio di corrispondenza tra contestazione e sentenza basti rilevare che, contrariamente a quanto si afferma nell’atto di impugnazione, nel capo d’imputazione era espressamente contestato di aver determinato “l’ingrandimento della lesione tumorale” che la Corte di merito ha qualificato come malattia. Semmai era il fatto ritenuto concretizzare la nozione di malattia accolta dal primo giudice (aumento del rischio di diffusione tumorale) che non risultava espressamente contestato.

Il secondo motivo del primo ricorso, oltre che generico, è rivolto ad ottenere in questa sede un accertamento in fatto inammissibile del giudizio di legittimità e comunque incompatibile - essendo stato dedotto un vizio di motivazione - con l’obbligo dell’immediata dichiarazione delle cause di estinzione del reato previsto dall’art. 129 c.p.p. e peraltro già dichiarata.

V. Il secondo ricorso è invece infondato e deve conseguentemente essere rigettato anche se le considerazioni svolte nel questo atto d’impugnazione sono largamente condivisibili.

Come è reso evidente dalla mera enunciazione dei temi proposti il problema da risolvere nel presente richiede che si affronti preliminarmente il problema riguardante la nozione di malattia accolta dal codice penale vigente che, è opportuno ricordarlo, a distinto il delitto di lesione da quello di percosse; delitto quest’ultimo, che non era previsto dal codice previgente. L’art. 372 del codice Zanardelli ricomprendeva infatti in un’unica fattispecie (denominata “lesione personale”) la condotta di “chiunque, senza il fine di uccidere, cagiona ad alcuno un danno nel corpo o nella salute o una perturbazione di mente”.

L’indeterminatezza della nozione di danno ha indotto il legislatore del 1930 a distinguere i due reati e il criterio distintivo adottato è appunto quello di una distinzione tra il caso del mero esercizio della violenza fisica (nel quale l’evento è costituito esclusivamente dal pregiudizio all’incolumità personale) e quello in cui alla violenza fisica consegua una malattia, concetto più restrittivo di quello di danno (che può ricomprendere anche un mero dolore fisico).

Il concetto di malattia ha diviso per decenni dottrina e giurisprudenza perché, a fronte di una nozione incentrata esclusivamente sulla mera alterazione anatomica, si è prospettata, in particolare dalla dottrina anche meno recente, una concezione diversa che fa riferimento alla necessità che a questa alterazione (che peraltro può anche mancare) si accompagni esistenza di limitazioni funzionali.

La prima concezione, assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità fino ad epoca recente, ha trovato conferma nella relazione ministeriale al codice penale nella quale si fa riferimento, per definire la malattia, a “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali” laddove l’uso della disgiuntiva fa intendere che sia sufficiente la mera alterazione anatomica perché possa ritenersi verificata la malattia.

La definizione di malattia contenuta nella relazione ministeriale ha contribuito a convalidare l’opinione secondo cui anche minime alterazioni anatomiche provocate da una percossa (l’arrossamento della cute, il piccolo graffio, le ecchimosi, i piccoli ematomi, le escoriazioni ecc.) potessero integrare la malattia cui fa riferimento l’art. 582 cod. pen. restringendo quindi l’area del delitto di percosse ai soli casi in cui alcuna alterazione anatomica si sia verificata: insomma ai soli casi nei quali la violenza sia stata minima e tale da non provocare neppure una delle moleste conseguenze in precedenza indicate.

VI. Contro questa costruzione - peraltro, come è stato osservato, contrastante con l’intenzione più genericamente manifestata dal legislatore di evitare di impiegare nel codice nozioni diverse da quelle scientifiche - si è da tempo obiettato che la nozione di malattia accolta nel campo medico scientifico è diversa e si riferisce alle alterazioni del corpo umano che inducano una limitazione funzionale dell’organismo anche di modesta entità.

E anche nella giurisprudenza di legittimità, a fronte di un orientamento prevalente che da sempre segue l’opzione della mera alterazione anatomica, si sono manifestati orientamenti più attenti a configurare la malattia in senso più aderente a quello della scienza medica evitando di introdurvi le alterazioni epidermiche prive di alcuna conseguenza.

Possono ricordarsi come significative di questo orientamento minoritario, negli ultimi anni, Cass., sez. IV, 28 ottobre 2004 n. 3448, Perna, rv. 230896 (che ha confermato la sentenza di merito che aveva qualificato malattia un processo infiammatorio delle mammelle durato nel tempo con anomala temperatura corporea e necessità di rimozione di protesi); sez. V, 15 ottobre 1998 n. 714, Rocca, rv. 212156 (che ha confermato la natura di malattia dei segni di svenimento accompagnati da una difficoltà respiratoria durata tre o quattro minuti conseguenti ad una condotta di afferrare al collo per due volte una persona); sez. IV, 14 novembre 1996 n. 10643, Francolini, rv. 207339 (che ha invece escluso la malattia per le conseguenze di un intervento chirurgico di natura estetica che aveva provocato l’asimmetricità delle mammelle e dei capezzoli).

Questo collegio condivide in linea di massima questo orientamento soprattutto per quanto riguarda l’affermazione di principio secondo cui non è sufficiente ad integrare la malattia la semplice alterazione anatomica priva di alcuna conseguenza e alla quale non consegua un processo patologico significativo e condivide altresì la necessità che venga individuato un concetto di malattia ricollegato a quello che fornisce la scienza medica.

Va però rilevato che la nozione di malattia non ha trovato una definizione univoca neppure in campo medico scientifico perché in varie accezioni di malattia accolte dagli studiosi (in particolare di quelli di medicina legale) si fa riferimento anche ad alterazioni patologiche che di per sé non comportano limitazioni funzionali: si pensi al modesto stato febbrile persistente cui non si accompagni una limitazione di questo genere nel senso che la persona è in grado di continuare a svolgere normalmente le proprie ordinarie attività.

È dunque condivisibile l’orientamento ricordato purché si precisi che alterazione funzionale è anche quella derivante da un processo patologico che incida in modo significativo sulla salute e sulla integrità fisica della persona o che comunque produca sia pur modeste alterazioni di funzioni sensoriali o protettive (è questo il caso esaminato da Cass., sez. V, 17 novembre 2005 n. 45345, Vecchio, n. m., riguardante un tatuaggio permanente eseguito su una minore senza il consenso dei genitori). E ciò indipendentemente dall’esistenza di un’alterazione di natura anatomica che, di per se stessa, non vale a far ritenere esistente la malattia a non è neppure necessaria ben potendosi avere malattie non ricollegate ad una lesione anatomica (tipico esempio è quello delle malattie di natura psichica).

In conclusione può affermarsi che la malattia giuridicamente rilevante cui fa riferimento l’art. 582 cod. pen. (e di riflesso l’art. 590 cod. pen. nella forma colposa) non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica (che possono anche mancare) ma quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o una compromissione, anche non definitiva ma significativa, di funzioni dell’organismo.

Diverso problema è quello dei postumi che, di per sé, non costituiscono malattia ma sono, nella normalità dei casi, conseguenza della malattia che va dunque autonomamente accertata e che dà in numerosi casi luogo ad aggravanti del delitto di lesione personale (per es. l’indebolimento permanente di un senso o di un organo: art. 583 comma 1 n. 2 cod. pen.). Problema al quale è sufficiente accennare, non riguardando il caso in esame, e che si pone in particolare per le cicatrici che non costituiscano sfregio permanente del viso per le quali occorrerà accertare se il processo patologico cui sono conseguite sia qualificabile come malattia, fermo restando che la cicatrice di per sé non lo è.

VII. Alla luce dei principi enunciati vanno dunque per la gran parte condivise le premesse da cui parte il ricorrente ma l’esame del caso concreto, così come accertato dai giudici di merito, non consente di accogliere le conclusioni proposte.

Potrebbe infatti discutersi dell’esistenza di un aggravamento della malattia se ci si trovasse in presenza di una formazione di natura non patologica della quale si fosse verificato un modesto aumento di dimensioni. In questo caso un accrescimento modesto non idoneo a provocare alcun disturbo funzionale né alcuna compromissione di funzioni e in particolare di funzioni sensoriali o protettive dell’organismo ben potrebbe effettivamente rientrare nelle ipotesi descritte inidonee a fondare l’ipotesi di reato non essendo ipotizzabile la malattia.

Ma, nel caso in esame, difetta proprio il presupposto per escludere la malattia perché ci troviamo in presenza di una formazione tumorale di natura maligna sia pure di tipo non aggressivo e a lenta evoluzione.

Questa patologia, secondo la scienza medica, è sicuramente qualificabile come malattia e l’aumento dimensionale, indipendentemente dalle conseguenze dell’intervento ablativo, può essere correttamente qualificato come aggravamento della malattia; e cagionare l’aggravamento, secondo la costante giurisprudenza di legittimità equivale a cagionare la malattia (v. in questo senso Cass., sez. IV, 28 ottobre 2004 n. 46586, Ardizzone, rv. 230599; sez. V, 5 ottobre 1989 n. 2782, Cantagallo, rv. 183522; sez. IV, 9 dicembre 1985 n. 7475, Bazzi, rv. 173398).

Nel caso in esame la modificazione della formazione tumorale è stata ritenuta costituire un aggravamento da parte del giudice di merito - cui soltanto compete questa valutazione che attiene ad un giudizio di merito che riguarda anche accertamenti fattuali - e poiché a questa conclusione la sentenza impugnata è pervenuta motivatamente e certamente con argomentare non illogico le conclusioni ricordate si sottraggono al vaglio di legittimità.

VIII. Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali



vedi il commento su www.altalex.com

giovedì 26 giugno 2008

Giurisdizione civile - Cassazione Sentenza n. 16540 del 13/05/2008

GIURISDIZIONE CIVILE - GIURISDIZIONE ORDINARIA E AMMINISTRATIVA - IMPIEGO PUBBLICO - CONFERIMENTO DI POSIZIONI ORGANIZZATIVE - PERSONALE NON DIRIGENTE - NATURA PRIVATISTICA DELL'ATTIVITA' DELL'AMMINISTRAZIONE - CONSEGUENZE
Con riguardo al conferimento delle posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni,inquadrato nelle aree la cui definizione è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva, le Sezioni Unite hanno precisato che esso esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi e s’iscrive nella categoria degli atti negoziali, assunti dall'Amministrazione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro, a norma dell'art. 5, comma secondo, del d.lgs. n. 165 del 2001. Conseguentemente, l’attività dell’Amministrazione che applica le disposizioni contrattuali non si configura come esercizio di un potere di organizzazione, ma come adempimento di un obbligo di ricognizione e di individuazione degli aventi diritto, con conseguente devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario delle relative controversie.

lunedì 23 giugno 2008

Passante che inciampa, la soluzione della Cassazione

Custodia – marciapiede - beni demaniali – passante che inciampa – responsabilità del Comune – sussistenza [art. 2051 c.c.]

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 23 aprile - 6 giugno 2008, n. 15042

Con atto di citazione, notificato il 28.1.1999, C.B. ha convenuto davanti al giudice di pace il Comune di Roma, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni conseguenti ad una caduta occorsale il *****, verso le ore 20, mentre camminava lungo la via *****. A causa della scarsa illuminazione, non si era avveduta di una sconnessione fra le lastre in travertino di copertura del marciapiede; vi aveva inciampato ed era caduta a terra, riportando la lesione del V metatarso del piede sinistro. Il danno è stato quantificato in Euro 2.582,28.

Il Comune ha resistito alla domanda, contestando ogni responsabilità e chiedendo di chiamare in causa la s.r.l. Ediltecnica, che gestiva in appalto la manutenzione della strada. L'Ediltecnica è stata effettivamente citata ed è rimasta contumace.

Con sentenza n. 950 del 2001 il giudice di pace ha respinto la domanda attrice ed ha compensato fra le parti le spese di causa.

Proposto appello dalla B., il Comune di Roma si è costituito, proponendo appello incidentale condizionato nei confronti della Ediltecnica. Quest'ultima ha resistito alla domanda. chiedendo di essere estromessa dal giudizio ed, in subordine, di essere rimessa in termini per poter produrre documenti e chiamare in garanzia il suo assicuratore.

Con sentenza 17-19 maggio 2004 n. 15909 il Tribunale di Roma ha respinto l'appello principale, condannando l'appellante al pagamento delle spese del grado in favore Comune di Roma.

Con atto notificato il 17.12.2004 la B. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza, notificatale il 19.10.2004, affidandone l'accoglimento a tre motivi.

Resistono con separati controricorsi il Comune di Roma e la s.r.l. Ediltecnica, ognuno dei quali propone ricorso incidentale condizionato.

Il Comune di Roma ha depositato memoria.




Motivi della decisione




Va preliminarmente disposta la riunione dei tre ricorsi (art. 335 cod. proc. civ.).

1.- La Corte di appello ha escluso la responsabilità del Comune ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., con la motivazione che la norma non è applicabile ai beni demaniali, qualora la loro estensione territoriale sia tale da non consentire una vigilanza ed un controllo idonei ad evitare l'insorgere di situazioni di pericolo; che poteva configurarsi una responsabilità del Comune solo ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., ma che nella specie non ne ricorrevano i presupposti., in quanto la sconnessione della copertura del marciapiede - trovandosi proprio davanti alla casa della danneggiata - avrebbe dovuto essere ben nota alla stessa, sì che non costituiva un'insidia.

2.- Con il primo motivo - deducendo violazione dell'art. 2051 e illogica, contraddittoria e insufficiente motivazione - la ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia escluso l'applicabilità dell'art. 2051 cod. civ. in termini apodittici, senza accertare se ricorressero le condizioni a cui la giurisprudenza subordina il venir meno della responsabilità per custodia, in relazione ai beni demaniali: senza accertare, in particolare, se il marciapiede in oggetto, per la sua collocazione ed estensione, fosse effettivamente non suscettibile di continuo e completo controllo ad opera dell'ente proprietario, sì da prevenire incidenti quale quello verificatosi. Assume il ricorrente che si tratta di strada situata in centro abitato, che il Comune ben poteva sorvegliare e mantenere in buone condizioni: di ciò il Comune stesso era ben consapevole, avendo affidato ad apposita impresa, cioè alla s.r.l. Ediltecnica, l'incarico della manutenzione.

3 . - Con il secondo motivo - deducendo violazione dell'art. 2043 cod. civ., nonché omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia - la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che la situazione oggettiva del marciapiede non configurava un'insidia, imprevedibile e inevitabile dall'utente.

Assume che l'anomalo dislivello del piano stradale manifesta un difetto di manutenzione che di per sé costituisce colpa e che, a fronte di tali specifiche manifestazioni di incuria non occorre la dimostrazione di ulteriori negligenze al fine di addebitare la responsabilità all'ente tenuto alla manutenzione.

4 . - Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omessa o insufficiente motivazione sulle circostanze relative ai fatti di causa, per avere la sentenza impugnata trascurato di considerare le circostanze emerse dall'istruttoria che dimostrano la responsabilità del Comune, quali quella - ammessa anche dal Tribunale, nella sentenza di primo grado - che la zona era poco illuminata, che altre persone camminavano davanti alla B. , impedendole di vedere la strada, restando irrilevante il fatto che l'anomalia della superficie stradale si trovasse in corrispondenza dell'abitazione della danneggiata.

5.- I tre motivi - che possono essere congiuntamente esaminati, perché connessi - sono fondati, nei termini che seguono.

5.1.- Appare in termini, in primo luogo, la censura della ricorrente circa l'assenza di motivazione sulle obiettive condizioni del luogo ove si è verificato l'incidente.

Il giudice di appello ha effettivamente escluso in modo aprioristico l'applicabilità dell'art. 2051 cod. civ. ai beni demaniali, laddove la giurisprudenza ha chiarito che occorre valutare caso per caso se - in relazione all'estensione territoriale e alle modalità d'uso del bene - sia o meno possibile un continuo ed efficace controllo, ad opera dell'ente pubblico, idoneo ad impedire l'insorgere di cause di pericolo per gli utenti. (Cfr., Cass. civ. 27 dicembre 1995 n. 13114; Casso civ. Sez. Un. 5 settembre 1997 n. 8588, con in-terpretazione avallata da Corte cost. 10 maggio 1999 n. 156; Casso civ., Sez. 3, 23 luglio 2003 n. 11446, in un caso simile a quello di specie, di caduta di una passante, sulla strada centrale di una città; Casso civ., Sez. 3. 5 agosto 2005 n. 16576; Casso civ., Sez. 3, 26 novembre 2007 n. 24617).

Si è specificato, altresì, che l'onere di fornire la prova delle circostanze che escludono la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 cod. civ. è a carico dell'amministrazione interessata, gravando sul danneggiato solo l'onere di dimostrare il nesso causale fra la situazione del bene ed il verificarsi del danno (Cass. civ., Sez. 3, 1 ottobre 2004 n. 19653).

I suddetti principi esprimono, nella sostanza, i peculiari criteri di imputazione della responsabilità per danno da cose in custodia, che debbono essere adottati in relazione ai beni demaniali.

Ed invero, il custode di beni privati risponde og-gettivamente dei danni provocati dal modo di essere e di operare del bene, sia in virtù del tradizionale principio "cuius commoda eius incommoda" (per cui chi utilizzi la cosa nel proprio interesse è tenuto anche a sopportarne i rischi); sia anche in considerazione del fatto che il privato ha il potere di escludere i terzi dall'uso del bene, e così di circoscrivere i possibili rischi di danni provenienti dai comportamenti altrui.

Per contro, il custode del bene demaniale destinato all'uso pubblico è esposto a fattori di rischio molteplici, imprevedibili e potenzialmente indeterminati, a causa dei comportamenti più o meno civili, corretti e avveduti degli innumerevoli utilizzatori, che egli non può escludere dall'uso del bene e di cui solo entro certi limiti può sorvegliare le azioni.

La responsabilità oggettiva di cui all'art. 2051 cod. civ. - pur in linea di principio innegabile - presenta pertanto un problema di delimitazione dei rischi di cui far carico all'ente gestore e "custode", la cui soluzione va ricercata in principi non sempre coincidenti con quelli che valgono per i privati.

Le peculiarità vanno individuate non solo e non tanto nell'estensione territoriale del bene e nelle concrete possibilità di vigilanza su si esso e sul comportamento degli utenti, di cui alle citate massime giurisprudenziali, quanto piuttosto nella natura e nella tipologia delle cause che abbiano provocato il danno: secondo che esse siano intrinseche alla struttura del bene, sì da costituire fattori di rischio conosciuti o conoscibili a priori dal custode (quali, in materia di strade, l'usura o il dissesto del fondo stradale, la presenza di buche, la segnaletica contraddittoria o ingannevole, ecc.) , o che si tratti invece di situazioni di pericolo estemporaneamente create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione (perdita d'olio ad opera del veicolo di passaggio; abbandono di vetri rotti, ferri arrugginiti, rifiuti tossici od altri agenti offensivi).

Nel primo caso è agevole individuare la responsabilità ai sensi dell'art. 2051 cod. civ., essendo il custode sicuramente obbligato a controllare lo stato della cosa e a mantenerla in condizioni ottimali di efficienza.

Nel secondo caso l'emergere dell'agente dannoso può considerarsi fortuito, quanto meno finché non sia trascorso il tempo ragionevolmente sufficiente perché l'ente gestore acquisisca conoscenza del pericolo venutosi a creare e possa intervenire ad eliminarlo.

I principi giurisprudenziali enunciati in precedenza stanno ad indicare, per l'appunto, la necessità di addossare al custode solo i rischi di cui egli possa essere chiamato a rispondere - tenuto conto della natura del bene e della causa del danno - sulla base dei doveri di sorveglianza e di manutenzione razionalmente esigibili, con riferimento a criteri di corretta e diligente gestione.

Sotto il profilo sistematico la suddetta selezione dei. rischi va compiuta - più che delimitando in astratto l'applicabilità dell'art. 2051 cod. civ. in relazione al carattere demaniale del bene - tramite una più ampia ed elastica applicazione della nozione di caso fortuito.

Con riguardo ai beni demaniali, cioè, si presenterà presumibilmente più spesso l'occasione di qualificare come fortuito il fattore di pericolo creato occasionalmente da terzi, che abbia esplicato le sue potenzialità offensive prima che fosse ragionevolmente esigibile l'intervento riparatore dell'ente custode.

L'impostazione risulta in linea, fra l'altro, con il principio giurisprudenziale sopra richiamato, per cui l'onere di fornire la prova delle circostanze idonee ad esimere dalla responsabilità di cui all'art. 2051 cod. civ. grava sul l'ente pubblico (Cass. civ., Sez. 3, 1 ottobre 2004 n. 19653). Tale infatti è il principio in vigore con riguardo alla prova del caso fortuito.

Nel caso di specie, la causa dell'incidente occorso alla B. è indubbiamente ravvisabile in un difetto strutturale della strada di proprietà del Comune di Roma - consistente nel disassamento del fondo stradale difetto integrante un vizio costruttivo, indipendente dalle altrui modalità di uso, di cui l'ente territoriale non poteva ignorare l'esistenza e che avrebbe dovuto eliminare.

In virtù dei principi enunciati, pertanto, la Corte di appello avrebbe dovuto applicare l'art. 2051 cod. civ., essendo incontestato in fatto che la B. sia caduta proprio per avere inciampato contro il dislivello del piano stradale.

Né il giudice di appello ha dedotto - a fondamento della sentenza di assoluzione - la circostanza che il difetto fosse impercettibile, o comunque lieve, o comunque tale da non giustificare il prodursi dell'evento se non in presenza di una colposa disattenzione della stessa danneggiata.

5.2.- Ogni altra censura della ricorrente è da ritenere assorbita.

6.- Con l'unico motivo del ricorso incidentale condizionato il Comune di Roma ripropone in questa sede la sua domanda di manleva nei confronti della s.r.l. Ediltecnica.

La censura è inammissibile, trattandosi di questione non esaminata e non decisa in appello, perché ritenuta assorbita a seguito del rigetto delle domande risarcitorie della B. .

Non vi è quindi pronuncia del giudice di appello, di cui questa Corte possa essere chiamata a valutare la legittimità.

7.- Per le stesse ragioni va dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato della Ediltecnica, che pure ripropone una questione (nullità dell'atto di chiamata in causa in primo grado della stessa Ediltecnical, su cui il Tribunale ha ritenuto superfluo pronunciare, essendo state respinte le domande proposte dalla B. contro il Comune.

Le parti interessate potranno far valere davanti al giudice di rinvio tutte le domande ed eccezioni a suo tempo proposte in appello.

8.- In accoglimento del ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa al Tribunale di Roma, in diversa composizione, affinché decida la controversia uniformandosi ai seguenti principi di diritto:

"La responsabilità per i danni provocati da cose in custodia, di cui all'art. 2051 cod. civ., trova applicazione anche in relazione ai beni demaniali.

Essendo tuttavia detti beni particolarmente esposti a fattori di rischio non prevedibili e non controllabili dal custode, perché determinati dai comportamenti del pubblico indiscriminato degli utenti - che il custode non può escludere dall'uso del bene e di cui solo entro certi limiti può sorvegliare le azioni - il caso fortuito idoneo ad esimere da responsabilità il custode di beni demaniali va individuato in base a criteri più ampi ed elastici di quelli che valgono per i beni privati.

Esso va individuato, in particolare, nei casi in cui la causa elle ha provocato il danno non sia strutturale e intrinseca al modo di essere del bene, ma sia derivata da comportamenti estemporanei di terzi, non immediatamente conoscibili o eliminabili dal custode, neppure con la più diligente attività di manutenzione.

Il difetto costruttivo del piano stradale, consistente in un rilevante dislivello fra le lastre di copertura, è da ritenere causa strutturale, quindi fonte di responsabilità ai sensi dell'art. 2051 cod. civ. , ove abbia in concreto creato inciampo e provocato la caduta di un passante".

"Anche nei casi in oggetto, la prova delle circostanze idonee ad esimere da responsabilità, quali caso fortuito, deve essere fornita dal custode del bene demaniale, ai sensi dell'art. 2051 cod. civ.".


P.Q.M.

La Corte di cassazione, riuniti i ricorsi, accoglie il principale dichiara inammissibili i ricorsi incidentali condizionati. Cassa e rinvia al Tribunale di Roma, in diversa composizione, che deciderà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

venerdì 20 giugno 2008

A proposito della risoluzione AdE sulla TIA

Come promesso,
Troviamo corretto specificare che le risoluzioni dell'Agenzia delle Entrate, non sono assolutamente vincolanti, essendo le medesimo atti interni dell'Agenzia.

Per maggiore chiarezza, forniamo un pò di giurisprudenza:

Per la sua natura e per il suo contenuto (di mera interpretazione di una norma di legge), non potendo esserle riconosciuta alcuna efficacia normativa esterna, la circolare non può essere annoverata fra gli atti generali di imposizione, impugnabili innanzi al giudice amministrativo, in via di azione, o disapplicabili dal giudice tributario od ordinario, in via incidentale. Il che rileva, in primo luogo, sul piano generale, perchè le circolari, come è stato affermato dalla dottrina prevalente, non possono nè contenere disposizioni derogative di norme di legge, nè essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie, che, come tali vincolano tutti i soggetti dell'ordinamento, essendo dotate di efficacia esclusivamente interna nell'ambito dell'amministrazione all'interno della quale sono emesse; e, in secondo luogo, con particolare riferimento all'ordinamento tributario, il quale come è noto, è soggetto alla riserva di legge. D'altra parte, per quanto concerne la dottrina specialistica, coloro che non concordano con una simile generale impostazione, pervengono, in definitiva, alla medesima conclusione, perchè sostengono che l'irrilevanza normativa delle circolari dal punto di vista del sistema tributario significa che le stesse sono inidonee, in quanto contenenti norme interne, ad operare all'esterno dell'ordinamento minore cui appartengono. Secondo i fautori di tale tesi dottrinaria, infatti, questa semplice premessa avrebbe il pregio di ridurre al rango di pseudo problema la questione della non impugnabilità in via autonoma delle circolari: proprio perchè rilevanti all'interno di un ordinamento parziale (o sezionale), esse non possono essere prese in considerazione dall'ordinamento generale, cui, invece, appartiene - per definizione - il potere giurisdizionale.


Anche la giurisprudenza ha da tempo espresso analoga opinione sulla inefficacia normativa esterna delle circolari. A quest'ultime, infatti, è stata attribuita la natura di atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all'amministrazione, nè acquistare efficacia vincolante per quest'ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti, senza poter incidere sul rapporto tributario, tenuto anche conto che la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell'amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. 1^, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. 5^, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003 n. 11011).

Questi risultati interpretativi vanno condivisi alla stregua delle seguenti considerazioni.

1) La circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull'auto tassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell'imposta da corrispondere) direttamente al contribuente.
2) La circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall'ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso, ecc.) possa essere ritenuto illegittimo "per violazione della circolare": infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l'atto emanato sarà legittimo perchè conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l'atto emanato sarà illegittimo per violazione di legge.
3) La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l'ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l'interpretazione adottata. Ciò è tanto vero che si è posto il problema della eventuale tutela del contribuente di fronte al mutamento di indirizzo (interpretativo) adottato dall'amministrazione e si è escluso che tale tutela sia possibile anche sotto il profilo dell'affidamento, stante la evidente collisione che si determinerebbe con il principio - coniugato secondo un diverso lessico, ma riferito ad un unico concetto - di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell'obbligazione tributaria, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta. Non si può, al riguardo, non concordare con quella autorevole dottrina che sostiene che, ammettere che l'amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorchè prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sè e i Giudici tributari, equivale a riconoscere all'amministrazione stessa un potere normativo che, a tacer d'altro, è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall'art. 23 Cost.. Tutt'al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell'amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni.
4) La circolare non vincola, infine, come già si è detto, il Giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione) dato che per l'annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data dall'amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l'ordinamento affida esclusivamente al Giudice il compito di interpretare la norma (del resto, al Giudice tributario è attribuita, nella materia tributaria, la giurisdizione esclusiva). In tal caso non può non concordarsi con una autorevole dottrina secondo la quale, ammettere l'impugnabilità della circolare interpretativa innanzi al giudice amministrativo - con la possibilità per quest'ultimo di annullarla, peraltro con effetto erga omnes - significherebbe precludere a tutti gli uffici dell'amministrazione finanziaria di accogliere quella interpretazione, con il risultato - contrario ai principi costituzionali - di elevare il Giudice amministrativo al rango di interprete autentico della norma tributaria.

In realtà, la circolare interpretativa esprime, come è stato efficacemente detto, una "dottrina dell'amministrazione", vale a dire l'opinione di una parte (anche se "forte") del rapporto tributario, che, peraltro, può essere discussa e disattesa dal giudice tributario. E, qualora il giudizio di quest'ultimo corrisponda al parere espresso dall'amministrazione, caso sarà pur sempre l'interpretazione del giudice che avrà esclusivo valore ed efficacia.

L'irrilevanza, nel senso fin qui spiegato, della circolare interpretativa in materia tributaria è stata, indirettamente, confermata da una recente sentenza della Corte Costituzionale - la n. 191 del 14 giugno 2007 - a proposito di un atto che sembrerebbe avere rispetto alla circolare, un "valore più cogente", dato il suo carattere "intersoggettivo", e cioè la risposta dell'Agenzia delle Entrate ad una istanza di interpello L. 27 luglio 2000, n. 212, ex art. 11, (c.d. "Statuto del contribuente").

La norma, come è noto, prevede che il contribuente possa "inoltrare per iscritto all'amministrazione finanziaria, che risponde entro cento venti giorni, circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l'applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse" (art. 11, comma 1): "la risposta dell'amministrazione finanziaria, scritta e motivata, vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell'istanza di interpello, e limitatamente al richiedente" (art. 11, comma 2). Orbene, la Corte costituzionale, affermato che "l'istituto dell'interpello del contribuente, regolato dalla L. n. 212 del 2000, art. 11, costituisce lo strumento attraverso il quale si esplica in via generale l'attività consultiva delle agenzie fiscali in ordine all'interpretazione delle disposizioni tributarie", evidenzia che il parere espresso nella risposta "è vincolante soltanto per l'amministrazione e non anche per il contribuente, il quale resta libero di disattenderlo": "coerentemente con la natura consultiva dell'attività demandata all'Agenzia delle entrate nella procedura di interpello, l'art. 11, non prevede, invece, alcun obbligo per il contribuente di conformarsi alla risposta dell'amministrazione finanziaria, nè statuisce l'autonoma impugnabilità di detta risposta davanti alle commissioni tributarie (oggetto di impugnazione può essere, eventualmente, solo l'atto con il quale l'amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all'interpretazione data dall'agenzia fiscale nella risposta all'interpello)": sicchè deve ritenersi che "la risposta all'interpello, resa dall'amministrazione ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 11, deve considerarsi un mero parere, che non integra alcun esercizio di potestà impositiva nei confronti del richiedente". Conclusione, codesta, che deve essere assunta anche riguardo alla circolare emanata dall'amministrazione.

Alla luce delle considerazioni svolte può, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: "La circolare con la quale l'Agenzia delle Entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati perchè vi si uniformino, esprime esclusivamente un parere dell'amministrazione non vincolante per il contribuente, e non è, quindi, impugnabile nè innanzi al Giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, nè innanzi al giudice tributario, non essendo atto di esercizio di potestà impositiva".

Cassazione civile, sez. Unite, 2 novembre 2007, n. 23031

giovedì 19 giugno 2008

Privacy: Riconoscimento vocale e gestione di sistemi informatici.

GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, PROVVEDIMENTO 28 febbraio 2008

Riconoscimento vocale e gestione di sistemi informatici.

IL GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI

Nella riunione odierna, in presenza del prof. Francesco Pizzetti, presidente, del dott. Giuseppe Chiaravalloti, vice presidente, del dott. Mauro Paissan e del dott. Giuseppe Fortunato, componenti, e del dott. Giovanni Buttarelli, segretario generale;

Esaminata la richiesta di verifica preliminare presentata da Michelin italiana S.p.A. ai sensi dell'art. 17 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lg. 30 giugno 2003, n. 196);

Visti gli atti d'ufficio;

Viste le osservazioni formulate dal segretario generale ai sensi dell'art. 15 del regolamento del Garante n. 1/2000;

Relatore il dott. Giuseppe Fortunato;

PREMESSO

1. Trattamento di dati personali biometrici di dipendenti per finalità di reimpostazione della parola chiave dei sistemi informatici

1.1. Michelin italiana S.p.A. ha presentato una richiesta di verifica preliminare ai sensi dell'art. 17 del Codice, relativa al trattamento di dati personali dei propri dipendenti per consentire ai medesimi la gestione e la reimpostazione automatica della parola chiave necessaria ad accedere ai sistemi informativi della società "per riconoscimento vocale tramite telefono”.

Tale trattamento, basato su un processo di riconoscimento biometrico dell'identità dell'utente mediante l'elaborazione di impronte vocali, verrebbe effettuato con l'ausilio di un'altra società che memorizzerebbe alcune informazioni personali degli utenti su un proprio server situato nella Repubblica federale tedesca. In esso confluirebbero, alimentando un archivio centralizzato (distinto rispetto a quello di altri clienti della medesima società), i seguenti dati personali di ciascun utente: nome, cognome, user-id dell'utente (per la realizzazione della procedura di enrollment) e indirizzo di posta elettronica (per l'invio di una comunicazione automatica dal sistema relativa al corretto completamento della procedura). Anche i profili vocali degli utenti generati nel corso della c.d. fase di addestramento del sistema (descritta al punto 1.2.) verrebbero memorizzati in forma di file criptato e senza riferimenti diretti all'utente loro associato ("soltanto tramite una tabella pointer della banca dati si può risalire all'abbinamento di questi file anonimi con gli utenti”: comunicazione Michelin del 22 febbraio 2007, p. 4).

1.2. Al fine del corretto funzionamento del sistema di riconoscimento vocale, in una prima fase (c.d. fase di addestramento, della durata complessiva di circa cinque minuti) gli utenti dovranno "parlare" con il sistema, in modo tale da rendere possibile l'acquisizione di informazioni sufficienti (c.d. formazione del vocabolario dell'utente) per consentire la successiva univoca identificazione degli utenti. A tal fine, questi ultimi dovrebbero pronunciare, per quattro volte, tre coppie di parole scelte casualmente in una lista predefinita contenente più di 4000 vocaboli (c.d. enrollment). A giudizio della società richiedente "il timbro della voce non può essere riprodotto e non è possibile riutilizzare il profilo della voce altrove" (cfr. comunicazione del 22 febbraio 2007, p. 2). Inoltre, la trasmissione dei dati tra Michelin e la società che offre il servizio avverrebbe attraverso una rete di dati protetta (Ssl).

Le informazioni vocali così raccolte, a seguito di opportuno trattamento, verrebbero trasformate nel modello (template) destinato a essere confrontato con quello risultante ogni qual volta si renda necessario provvedere all'impostazione e reimpostazione della parola chiave. In tali occasioni il sistema procederebbe a un previo confronto tra il dato biometrico risultante dall'analisi delle parole pronunciate dall'utente e il template al medesimo riferito, memorizzato nella fase di addestramento; accertata l'identità dell'utente, il sistema procederebbe automaticamente a impostare la parola chiave, comunicandola al medesimo.

Il sistema di riconoscimento, isolato e non comunicante con altri, non verrebbe utilizzato per ulteriori finalità, né è prevista la comunicazione dei dati a terzi (cfr. comunicazione del 22 febbraio 2007, p. 4).

2. Dati biometrici e disciplina di protezione dei dati personali: principi di liceità, finalità e pertinenza nel trattamento

2.1. Il caso sottoposto alla verifica preliminare di questa Autorità integra un'ipotesi di trattamento di dati personali. Sia le impronte vocali, sia i dati da esse ricavati e successivamente utilizzati per verifiche e raffronti nelle procedure di autenticazione o di identificazione sono informazioni personali riconducibili ai singoli interessati (art. 4, comma 1, lett. b), del Codice), alle quali trova applicazione la disciplina contenuta nel Codice (cfr. Provv. 19 novembre 1999, in Boll. n. 10, p. 68, doc. web n. 42058 e 21 luglio 2005, in Boll. n. 63, doc. web n. 1150679; in merito v. pure il documento di lavoro sulla biometria del Gruppo art. 29, direttiva n. 95/46/Ce -WP80-, punto 3.1.).

I dati biometrici, per la loro peculiare natura, richiedono l'adozione di elevate cautele al fine di prevenire possibili pregiudizi ai danni degli interessati, con particolare riguardo a condotte illecite che determinino l'abusiva "ricostruzione" dell'impronta vocale, la cui possibilità allo stato viene esclusa, partendo dal template e la sua ulteriore "utilizzazione" all'insaputa degli stessi.

2.2. Nella fattispecie in esame, la finalità perseguita dalla società è, in termini generali, lecita: infatti, l'adozione di un sistema di autenticazione informatica (mediante il quale gli incaricati dotati di apposite credenziali possono effettuare specifici trattamenti di dati personali), conforme ai requisiti tecnici indicati dalle regole da 1 a 11 dell'Allegato B) al Codice, costituisce una misura di sicurezza che il titolare, il responsabile (ove designato) e l'incaricato sono tenuti ad utilizzare (art. 34, comma 1, lett. a) del Codice).

In linea di principio, non sussistono ostacoli alla predisposizione di un sistema più elevato di sicurezza per le procedure connesse alla gestione delle credenziali di autenticazione, nel caso di specie ricorrendo alle caratteristiche biometriche dell'incaricato (cfr. pure regola 2 dell'allegato B) cit.).

Tenuto conto delle caratteristiche tecniche del sistema, nei termini in cui sono state descritte, alla luce dello stato di evoluzione della tecnologia informatica biometrica e considerate le misure di sicurezza attestate da Michelin anche in riferimento alla società che offre in outosourcing il servizio, può ritenersi ammissibile nel caso di specie la centralizzazione in un database delle informazioni personali (in forma di template dell'impronta vocale) trattate nell'ambito del descritto procedimento di riconoscimento biometrico: allo stato, infatti, l'impronta vocale della persona, nelle forme in cui essa è acquisita e codificata nella specifica applicazione sottoposta a verifica preliminare, non rappresenterebbe un dato biometrico suscettibile di essere in concreto utilizzato per finalità diverse da quella perseguita dal titolare del trattamento.

L'impronta vocale dell'utente (generata secondo il processo descritto) sarebbe utilizzabile solo per il sistema in esame, e non per eventuali ulteriori diverse applicazioni basate su ulteriori e distinti sistemi di riconoscimento vocale.

3. Adempimenti

Resta fermo il principio secondo cui la società dovrà richiedere il consenso degli interessati (art. 23 del Codice; cfr. pure, tra i tanti, Provv. 1° febbraio 2007, punto 3.3., doc. web n. 1381983; Provv. 26 luglio 2006, punto 3.3. doc. web n. 1318582; Provv. 15 giugno 2006, punto 3.2., doc. web n. 1306523), predisponendo o mantenendo sistemi alternativi per consentire la reimpostazione della password. Resta parimenti fermo l'obbligo della società di rispettare le disposizioni di legge in tema di:

designazione quale "responsabile del trattamento" della società che opera nell'interesse di Michelin per consentire il funzionamento del descritto sistema di riconoscimento biometrico (art. 29 del Codice);
notificazione al Garante del trattamento dei dati biometrici, anteriormente al suo inizio (artt. 37, comma 1, lett. a), e 38 del Codice);

attuazione di ogni misura, anche minima, di sicurezza prescritta dal Codice (art. 31 ss. e Allegato B), anche per ciò che riguarda il rilascio dall'installatore del sistema del prescritto attestato di conformità e la relativa conservazione presso la propria struttura (regola n. 25 del Disciplinare tecnico in materia di misure minime di sicurezza-Allegato "B" al Codice).

Michelin italiana S.p.A. dovrà altresì provvedere ad adottare, ai sensi dell'art. 17 del Codice, i seguenti accorgimenti:

a. mettere a disposizione di ciascun utente, unitamente all'informativa che la società deve fornire ai sensi dell'art. 13 del Codice, anche con modalità informatiche, le istruzioni per gli utilizzatori (rimesse peraltro a questa Autorità in allegato alla comunicazione del 7 luglio 2006);

b. porre in essere idonee misure organizzative per prevenire ogni rischio di abusivo utilizzo dei dati personali raccolti nella fase di addestramento (ad esempio, prevenendo la presa di conoscenza da parte di soggetti non autorizzati delle coppie di vocaboli memorizzati dagli utenti);

c. curare la tempestiva cancellazione dei dati personali necessari al funzionamento del descritto sistema, anche presso il responsabile del trattamento, successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro o di collaborazione con l'utente.

TUTTO CIÒ PREMESSO IL GARANTE

in sede di verifica preliminare ai sensi degli artt. 17 e 154, comma 1, lett. c), del Codice in materia di trattamento di dati personali correlato all'utilizzo di un sistema di riconoscimento biometrico basato sul rilevamento delle impronte vocali da parte di Michelin italiana S.p.A., volto a consentire l'impostazione delle credenziali di autenticazione, prescrive alla medesima società, quali accorgimenti a garanzia degli interessati, di:

mettere a disposizione di ciascun utente, anche con modalità informatiche, idonee istruzioni per gli utilizzatori (punto 3);

porre in essere idonee misure organizzative per prevenire ogni rischio di abusivo utilizzo dei dati personali raccolti nella fase di addestramento (punto 3);

curare la tempestiva cancellazione dei dati personali necessari al funzionamento del descritto sistema, anche presso il responsabile del trattamento, in caso di cessazione del rapporto di lavoro o di collaborazione con l'utente (punto 3).

Tia Tariffa igiene ambientale deve essere assoggettata all'IVA?

Interpello- Articolo 11, legge 27 luglio 2000, n. 212. – Assoggettabilità all’imposta sul valore aggiunto della tariffa di igiene ambientale (TIA).

La tariffa di igiene ambientale (TIA) è stata istituita dall’articolo 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, (recante “Attuazione delle direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio”) che ha contestualmente disposto la soppressione della previgente tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU).
In seguito all’entrata in vigore del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (recante “Norme in materia ambientale”), la disciplina della TIA è contenuta nell’art. 238 del medesimo decreto che definisce, al comma 1, la suddetta tariffa come il “corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani”.
Il medesimo articolo 238 dispone, inoltre, che è tenuto al pagamento della tariffa chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte ad uso privato o pubblico e che la tariffa, applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata, è composta, oltre che da una quota fissa (“determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti”), anche da una quota variabile che è espressamente rapportata “alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione”, in modo che venga assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio relativi al servizio in argomento.
Riguardo alla natura giuridica della TIA e al regime fiscale alla stessa applicabile agli effetti dell’IVA, l’Agenzia delle Entrate con risoluzione n. 25/E del 5 febbraio 2003 ha chiarito, confermando l’orientamento già espresso con circolare n. 111/E del 21 maggio 1999, che la tariffa si configura “alla stregua di un corrispettivo”, nel presupposto che l’espletamento del servizio avvenga secondo le regole di diritto comune.
La citata risoluzione n. 25/E del 2003 ha, quindi, chiarito che la TIA deve essere assoggettata all’IVA con applicazione dell’aliquota agevolata del 10 per cento prevista dal n. 127-sexiesdecies) della Tabella A, Parte III, allegata al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
Ciò premesso, con riferimento al quesito formulato dall’interpellante, la scrivente ritiene di dover confermare l’orientamento già espresso con la citata risoluzione n. 25/E del 2003, anche alla luce della qualificazione normativa della TIA come “corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani” operata dall’art. 238 del D. Lgs. n. 152 del 2006 e delle modalità di determinazione della tariffa stessa, basate, fra l’altro, ai sensi del medesimo decreto, sulla quantità dei rifiuti conferiti dall’utenza, sul servizio fornito e sull’entità dei costi di gestione.
Per quanto concerne la sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 17526 del 2007 - richiamata espressamente dall’istante a sostegno della propria soluzione interpretativa – si osserva che l’anzidetta sentenza, senza affrontare in modo specifico la problematica fiscale, ha affermato la natura tributaria della tariffa, sulla base, in primo luogo, della circostanza che le controversie in materia di TIA sono state devolute al giudice tributario dall’art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248; ad avviso dei giudici di legittimità se il legislatore ha ricondotto la TIA nell’ambito del processo tributario si deve presumere che abbia voluto riconoscerne la natura di entrata tributaria.
Al riguardo, si ritiene che l’avvenuta devoluzione delle liti in materia di TIA al giudice tributario non possa valere, di per sé, come presupposto idoneo a definire la natura della stessa come prelievo di diritto pubblico e ad escluderne la natura di corrispettivo del servizio di gestione dei rifiuti, con conseguente inapplicabilità dell’IVA.
Antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 3-bis del decreto-legge n. 203 del 2005, infatti, l’art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, nel prevedere che “appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie
aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie (…), compresi quelli regionali, provinciali e comunali (…)”, già recava una definizione della giurisdizione tributaria tale da ricomprendere tutti i prelievi tributari, ivi compresi quelli locali.
Pertanto, se si ammettesse la tesi secondo cui la TIA ha natura tributaria, non si comprenderebbe la necessità dell’intervento legislativo, realizzato con l’introduzione dell’art. 3-bis del citato decreto-legge n. 203 del 2005, diretto a devolvere espressamente le controversie relative alla TIA alle Commissioni tributarie.
In secondo luogo, la richiamata sentenza n. 17526 del 2007 motiva la natura di entrata tributaria della TIA affermando che la stessa non sembra presentare caratteri sostanziali di diversità rispetto alla tassa, atteso che “fondamento dell’applicazione della tariffa non è alcun intervento o atto volontario del privato”.
Nella citata sentenza viene quindi affermato che la TIA non può qualificarsi come corrispettivo, in senso tecnico, di una prestazione liberamente richiesta, rappresentando, invece, “una forma di finanziamento di servizio pubblico attraverso l’imposizione dei relativi costi sull’area sociale che da tali costi ricava, nel suo insieme, un beneficio”.
Si fa presente, in proposito, che tale osservazione appare suscettibile di essere superata da successive pronunce della Corte di Cassazione, in particolare dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 25551 del 7 dicembre 2007, nella quale viene affermato che “per la copertura dell’onere economico di una attività o di un servizio pubblico il legislatore (…) può sia ricorrere ad una tassa (…) sia utilizzare altri moduli estranei al regime fiscale (entrate non tributarie) in un’ottica più moderna di defiscalizzazione di taluni prelievi tributari e della loro sostituzione con tariffe, canoni o prezzi pubblici”.
La citata sentenza sottolinea, quindi, che occorre distinguere la “tassa”, che condivide la natura tributaria dell’imposta, da “canoni, (…) tariffe, (…) diritti speciali, (…) prezzi pubblici” che rientrano nella categoria delle “entrate patrimoniali extratributarie” e sono assoggettati al relativo regime, a prescindere
dalla scelta operata dal legislatore di devolvere le relative controversie al giudice tributario.
Tutto quanto sopra rappresentato, non si ritiene di poter condividere la soluzione interpretativa prospettata dall’istante.
Si evidenzia, infine, per completezza, per quanto riguarda la possibilità, rappresentata dall’istante, di presentare all’Amministrazione finanziaria istanza di rimborso dell’IVA applicata sulla TIA per le annualità pregresse, che tale istanza sarebbe, in ogni caso, preclusa all’utente finale del servizio in argomento.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, la disciplina in materia di IVA delinea la sussistenza di tre distinti rapporti giuridici “collegati, ma che non interferiscono fra di loro”, intercorrenti tra cedente (o prestatore) ed Amministrazione finanziaria - relativamente al pagamento dell’imposta - fra cedente (o prestatore) e cessionario (o committente) - in ordine all’esercizio della rivalsa - e fra cessionario (o committente) ed Amministrazione finanziaria - relativamente alla detrazione dell’IVA assolta in via di rivalsa.
Da ciò discende che solo il cedente o prestatore ha titolo ad agire per il rimborso dell’imposta nei confronti dell’Amministrazione finanziaria la quale, essendo estranea al rapporto fra cedente (o prestatore) e cessionario (o committente), non può essere tenuta a rimborsare direttamente a quest’ultimo quanto dallo stesso versato in via di rivalsa (cfr., Cass. 6419 del 22 aprile 2003).
Pertanto, con riferimento al caso di specie, l’utente finale del servizio, in quanto estraneo al rapporto concernente il pagamento dell’imposta, sarebbe privo della legittimazione attiva a chiedere l’eventuale rimborso dell’IVA all’Agenzia delle Entrate e ad instaurare - in caso di rifiuto espresso o tacito da parte dell’Amministrazione finanziaria - il giudizio relativo alla debenza del tributo innanzi al giudice tributario.

Compravendita immobili - valore base per calcolare l'IVA

OGGETTO: Interpello -ART.11, legge 27 luglio 2000, n. 212.
Prova del valore normale nei trasferimenti immobiliari soggetti ad Iva finanziati mediante mutui fondiari o finanziamenti bancari erogati per importi superiori al costo di acquisto.


L’articolo 35, comma 2, del D.L. n. 223 del 2006, inserendo un nuovo periodo nel comma 3 dell’articolo 54 del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, ha previsto che, per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova dell’esistenza di operazioni imponibili per un ammontare superiore a quanto
dichiarato o l’inesattezza delle operazioni che danno diritto alla detrazione “... si intende integrata anche se l’esistenza delle operazioni imponibili o l’inesattezza delle indicazioni di cui al secondo comma sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni, determinato ai sensi dell’articolo 14 del presente decreto”.
Come chiarito con circolare n. 28/E del 4 agosto 2006, per effetto di tale disposizione gli uffici - relativamente alle operazioni aventi ad oggetto la cessione di beni immobili e relative pertinenze - possono rettificare direttamente la dichiarazione annuale Iva quando il corrispettivo della cessione medesima sia dichiarato in misura inferiore al “valore normale” del bene determinato, ai sensi del richiamato articolo 14 del d.P.R. n. 633 del 1972, come il “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui è stata effettuata l’operazione o nel tempo e nel luogo più prossimi”.
Analoga disposizione è stata introdotta, ai fini delle imposte sui redditi, dall’art. 35, comma 3, del D.L. 223 del 2006 che, modificando l’articolo 39, comma 1, lettera d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ha attribuito agli uffici finanziari il potere di rettificare direttamente il reddito d’impresa in base al “valore normale” dei beni immobili ceduti quando tale valore, determinato ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), risulti superiore al corrispettivo dichiarato.
L’articolo 35, comma 23-bis, del citato D.L. 223 del 2006, inserito dalla legge di conversione, ha inoltre introdotto uno specifico criterio di determinazione del valore normale ai fini IVA nella cessione dei beni immobili basato sull’ammontare del finanziamento, stabilendo che “per i trasferimenti immobiliari soggetti ad IVA finanziati mediante mutui fondiari o finanziamenti bancari, ai fini delle disposizioni di cui all’articolo 54 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, terzo comma, ultimo periodo il valore normale non può essere inferiore all’ammontare del mutuo o finanziamento erogato”.
Ad uno sguardo d’insieme emerge che, al fine di contrastare fenomeni evasivi realizzati mediante simulazione del prezzo di vendita degli immobili, con il richiamato articolo 35, commi 2, 3 e 23- bis, sono state introdotte delle presunzioni in favore dell’Amministrazione finanziaria che, per gli atti formati dal 4 luglio 2006 (cfr art. 1, comma 265, della legge 24 dicembre 2007, n. 244), non è più tenuta a fornire prova diretta del fatto presunto.
Peraltro, nonostante l’entità minima del valore normale dei trasferimenti immobiliari soggetti ad IVA (finanziati mediante mutui) risulti individuata ex lege, non si determina un’equiparazione assoluta tra importo del finanziamento e valore normale, destinata a valere indipendentemente dai criteri fissati dall’art. 14, del D.P.R. n. 633 del 1972. Ciò significa che l’Amministrazione non è vincolata dal criterio dell’importo del finanziamento in tutti quei casi in cui il valore normale, determinato ex art. 14 del D.P.R. n. 633 del 1972, risulti essere superiore all’ammontare della sottostante operazione di credito.
Del resto, come chiarito con circolare n. 11/E del 2007, le richiamate disposizioni del D.L. n. 223 del 2006 non hanno modificato il profilo sostanziale dei singoli ambiti impositivi, con la conseguenza che devono ritenersi immutati i criteri di determinazione della base imponibile Iva nonché di determinazione dei ricavi ai fini delle imposte sui redditi.
Ciò premesso, con riferimento al caso prospettato - come anche chiarito con la risoluzione n. 122/E del 1° giugno 2007, cui si rinvia - se il cessionario stipula un contratto di mutuo bancario per un importo superiore al corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita al fine di sostenere anche altre spese relative all’acquisto dell’immobile, coerentemente con la natura di presunzione legale relativa delle richiamate disposizioni, in sede di accertamento è sempre possibile fornire prova che l’ammontare del finanziamento rilevante ai fini della determinazione del valore normale è solo parte di quello risultante dall’operazione di credito ovvero che lo stesso non è finalizzato all’acquisto dell’immobile. A tale fine, se nel contratto di
mutuo è specificato che parte della somma mutuata non è destinata a sostenere l’acquisto dell’immobile, per vincere la presunzione occorre fornire prova documentale della diversa destinazione del predetto ammontare. Sarà, pertanto, cura delle parti conservare adeguata documentazione al fine di superare la presunzione prevista dalla legge.
Non può, al contrario, ritenersi corretto che il cedente fatturi in via preventiva importi in misura superiore a quelli dichiarati in atto - che, in linea di principio, coincidono con quelli effettivi - al solo fine di inibire il potere di rettifica dell’ufficio.
La scrivente, conformemente al parere espresso dalla Direzione Regionale, infatti, dell’avviso che nell’atto di compravendita dell’immobile debba essere indicato il corrispettivo effettivamente pattuito tra le parti e che l’Iva debba essere assolta sulla base dell’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente, secondo le condizioni contrattuali. Ai fini delle imposte dirette, invece, il ricavo della cessione sarà determinato, ai sensi dell’articolo 85 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (c.d. “Nuovo Tuir”), sulla base del corrispettivo della cessione del bene alla cui produzione o al cui scambio è diretta l’attività dell’impresa che, per le considerazioni sopra espresse, coinciderà con l’importo indicato in fattura

lunedì 16 giugno 2008

Cassazione 14813/2008 Condominio ritorna la solidarietà passiva

Con la sentenza 14813/2008 la Corte di Cassazione ha dichiarato corretto il principio applicato dal giudice di pace di Roma «in quanto non viene chiarito perché nella specie dovrebbe essere derogato il principio generale di cui all'articolo 1292 del Codice civile secondo il quale la solidarietà si presume nel caso di pluralità di debitori». Questa la decisione all'udienza del 24 aprile, pochi giorni dopo quella delle Sezioni Unite 9148 dell'8 aprile, che ha scelto l'indirizzo minoritario della parziarietà delle obbligazioni condominiali e con la quale sorge ora nuovamente il contrasto.
La Corte scongiura, provvidenzialmente, il pericolo incombente dell'applicazione della parziarietà a tutte le obbligazioni pecuniarie con pluralità di soggetti, in forza dell'assunto generale che «la solidarietà passiva scaturisce dalla contestuale presenza di diversi requisiti, compresa l'indivisibilità della prestazione comune, in difetto dei quali e di una precisa disposizione di legge, prevale la struttura parziale dell'obbligazione pecuniaria». Infatti, la scelta condominiale della parziarietà «secondo i rigorosi principi di diritto che regolano "le obbligazioni comuni" con pluralità di debitori» coinvolge tutte le obbligazioni soggettivamente complesse di una prestazione pecuniaria intrinsecamente divisibile

Cassazione 8549/2008 Fatture e Decreto Ingiuntivo

La fattura, ove proveniente da un imprenditore esercente attività commerciale e relativa fornitura di merci o prestazioni di servizi (anche a cliente non esercente, a sua volta, la medesima attività), rappresenta idonea prova scritta del credito quale richiesta ex lege per l'emissione di un decreto ingiuntivo, sempre che ne risulti la regolarità amministrativa e fiscale. Deve escludersi, peraltro, che la stessa fattura possa rappresentare nel giudizio di merito - e anche in quello di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto in base a essa - prova idonea in ordine così alla certezza, alla liquidità e alla esigibilità del credito dichiaratovi, come ai fini della dimostrazione del fondamento della pretesa. La fattura, infatti, si inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all'altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito, per cui quando tale rapporto sia contestato tra le parti, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, proprio per la sua formazione a opera della stessa parte che intende avvalersene, non può assurgere a prova del contratto, ma, al più, può rappresentare un mero indizio della stipulazione di esso e dell'esecuzione della prestazione, mentre nessun valore, neppure indiziario, le si può riconoscere in ordine alla rispondenza della prestazione stessa a quella pattuita, come agli altri elementi costitutivi del contratto (Cass. 4/03/2003, n. 3188; Cass. 08/06/2004, n. 10830).

giovedì 12 giugno 2008

Processo Troppo Lungo? Legge Pinto.

L’art. 2 della legge 89/2001, infatti, attribuisce, a chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione del termine ragionevole di durata del processo di cui all’art. 6 della Cedu, il diritto ad una “equa riparazione”.
Il danno è risarcito, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso adeguate forme di pubblicità dell'avvenuta violazione
A mero titolo esemplificativo:un soggetto, nei confronti del quale sia aperta una procedura fallimentare, da venti anni (come purtroppo accade più frequentemente di quanto non si pensi), si vedrà verosimilmente liquidare dalle Corti italiane un risarcimento compreso tra i 16.000,00 ed i 32.000,00 Euro, sulla base di un’irragionevole durata determinata in anni sedici. Il sistema tariffario che solitamente viene consigliato è quello del patto di quota lite, anche “secco”, cioè senza versamento unico iniziale, così il cliente non deve anticipare nulla e si divide con il professionista il ricavato finale.

sabato 7 giugno 2008

Agenzia delle Entrate - Plusvalenze derivanti da cessione immobiliare

L’art. 67, comma 1, lett. b), del DPR n. 917 del 22 dicembre 1986, dispone che devono essere tassati come redditi diversi "le plusvalenze realizzate mediante cessione a titolo oneroso di beni immobili acquistati o costruiti da non più di cinque anni,…".
La previsione normativa sopra citata è stata introdotta al fine di assoggettare a tassazione i guadagni derivanti dalle cessioni di beni immobili poste in essere con finalità speculative.
In particolare, la finalità speculativa delle cessioni in discussione si presume dalla circostanza che l’arco temporale che intercorre tra la data di acquisto o di costruzione dell'immobile e la data di vendita dello stesso sia inferiore a cinque anni.
In merito alla fattispecie rappresentata, trattandosi di fabbricati in costruzione, si ritiene che il decorso del termine quinquennale agli effetti del citato art. 67, decorra dal momento in cui l’immobile è stato realizzato.
Per quanto concerne il momento di ultimazione della costruzione di un immobile, questa Direzione Centrale, con la circolare 1 marzo 2007, n. 12/E, in materia di regime IVA applicabile alla cessione di fabbricati, ha chiarito che esso coincide con quello in cui l’immobile è idoneo ad espletare la sua funzione ovvero ad essere destinato al consumo.
Peraltro, già con circolare n. 38/E del 12 agosto 2005, anche in materia di accertamento dei requisiti "prima casa", era stato chiarito che si deve ritenere "ultimato" il fabbricato concesso in uso a terzi, con i fisiologici contratti relativi all’utilizzo dell’immobile.
La predetta circolare ha precisato che la stipula del contratto, pur in assenza della formale attestazione di ultimazione dei lavori rilasciata dal tecnico competente, fa presumere che l’immobile, essendo idoneo ad essere immesso in 3
consumo, presenti tutte le caratteristiche fisiche idonee a far ritenere l’opera di costruzione o di ristrutturazione completata.
Si segnala infine che anche agli effetti dell’ICI, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 504 del 30 novembre 1992, "il fabbricato di nuova costruzione è soggetto all’imposta a partire dalla data di ultimazione dei lavori di costruzione ovvero, se antecedente, dalla data in cui è comunque utilizzato".
Si ritiene quindi che in ambito tributario, il concetto di ultimazione dei lavori di costruzione di un immobile di fatto prescinde dall’accatastamento del bene o dalla data della certificazione rilasciata in sede di collaudo, prevalendo, invece, la sostanziale fruizione o utilizzazione economica del bene.
Ciò premesso, si concorda con il parere espresso dagli istanti nel ritenere che, nella fattispecie in esame il quinquennio previsto dall’art. 67, lett. b), decorre dal 1° dicembre 2001, giorno in cui (come risulta dalla documentazione allegata all’istanza di interpello) l’immobile è stato concesso in locazione alla ditta ALFA S.r.l. (contratto registrato il …).
Pertanto, nel caso in esame venendo meno il presupposto impositivo richiesto dalla lettera b) dell’art. 67 del TUIR, la cessione del fabbricato, non produrrà una plusvalenza tassabile ai sensi del citato articolo.

Processo tributario - Notificazione

L’ufficiale giudiziario o il messo notificatore sono obbligati a svolgere una ricerca diligente per notificare gli atti nella sede effettiva della persona giuridica o in generale nella residenza effettiva del destinatario. Qualora non sia possibile individuare con certezza la sede o la residenza effettiva, la notificazione potrà essere eseguita ricorrendo ai criteri sussidiari rispettivamente a norma degli artt. 140 e 143 c.p.c. In assenza di una ricerca diligente i tentativi di notifica fatti successivamente, debbono ritenersi tam quam non essent, per violazione delle norme giuridiche in materia di notificazione.

Cassazione: Inadempimento del Mutuatario, conseguenze

CONTRATTI BANCARI – MUTUO FONDIARIO – INADEMPIMENTO DEL MUTUATARIO – CONSEGUENZE
In tema di mutuo fondiario, le S.U., risolvendo un contrasto di giurisprudenza, hanno affermato che, in ipotesi di inadempimento del mutuatario, l’esercizio della condizione risolutiva da parte dell’Istituto di credito mutuante determina la risoluzione del rapporto di mutuo, con la conseguenza per il mutuatario di provvedere, oltre al pagamento integrale delle rate già scadute, all’immediata restituzione della somma capitale, ma non degli interessi conglobati nelle semestralità a scadere, dovendosi poi calcolare sul credito così determinato gli interessi di mora ad un tasso corrispondente a quello contrattualmente pattuito, se superiore al tasso legale