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lunedì 5 gennaio 2009

Speciale Lavoro: Discriminazioni e parità

L'art. 141 Ce deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in materia di retribuzione dei dipendenti pubblici come quella di cui alla causa principale che, da un lato, definisce le ore straordinarie effettuate sia dai dipendenti a tempo pieno sia da quelli a tempo parziale come ore che essi svolgono oltre il loro orario individuale di lavoro e, dall'altro, retribuisce tali ore secondo una tariffa inferiore alla tariffa oraria applicata alle ore effettuate entro l'orario individuale di lavoro, in modo tale che i dipendenti a tempo parziale sono retribuiti in modo meno vantaggiosi dei dipendenti a tempo pieno per quanto riguarda le ore che effettuano oltre il loro orario individuale di lavoro e nei limiti del numero di ore dovute da un dipendente a tempo pieno nell'ambito del suo orario, nel caso in cui: tra l'insieme dei lavoratori cui si applica tale normativa, sia danneggiata una percentuale notevolmente più elevata di lavoratori di sesso femminile che di lavoratori di sesso maschile; la disparità di trattamento non sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.

L'espressione anzianità di servizio di cui agli artt. 6 e 7 L. 30/12/71 n. 1204 (ora artt. 22 e 32 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 TU in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità) è indicativa di una nozione unitaria e conseguentemente vieta al datore di lavoro di interpretare una clausola collettiva, che sclue dal computo dell'anzianità di servizio utile per progressioni automatiche di carriera le assenze volontarie (nella specie l'art6. 18 Ccnl Casse di risparmio), come rifertita anche alle assenze dal lavoro per fruizione dell'ex astensione facoltativa; questa equiparazione infatti viola l'art 15 SL, in quanto costituisce patto volto a discriminare nell'assegnazione delle qualifiche o a recare altrimenti pregiudizio a un lavoratore in ragione del suo sesso e costituisce discriminazione indiretta ai sensi dell'art. 4, comma 2°, L. 10/4/91 n. 125.
La nozione oggettiva delle discriminazioni di genere ex art. 4, 1° e 2° comm, L. 10/4/91 n. 125 (ora art. 25 D.Lgs. 11/4/06 n. 198) implica l'irrilevanza dell'intento discriminatorio e azione in giudizio di tipo collettivo della Consigliera di Parità (art. 4, 9° comma, L. 125/91, ora art. 37, comma 3°, D.Lgs. 198/06), ha come presupposto non i singoli comportamenti discriminatori in ragione del sesso ai danni di soggetti individuati, bensì fatti, patti o comportamenti discriminatori, idoeni a svantaggiare, in ragione del sesso, una collettività di persone, anche non individuabili in modo immediato; tale azione collettiva è ammissibile anche quando venga proposta contestualmente con l'intervento in giudizio a sostegno delle lavoratrici, ai sensi dell'art. 36, 2° comma, D.Lgs. 198/06, e può condurre all'emanazione dell'ordine di definizione del piano di rimozione delle discriminazioni accertate.

Il principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori osta a una normativa nazionale che preveda un calcolo dell'anzianità di servizio dei lavoratori a tempo parziale pro quota in un caso in cui la totalità di tali lavoratori sia costituita da donne, derivandone una discriminazione indiretta a danno di queste; a meno che il datore di lavoro non provi che quel calcolo sia giustificato da fattori la cui obiettività dipende segnatamente dallo scopo perseguito, attraverso la considerazione dell'anzianità di servizio e, nel caso in cui si tratti di remunerare l'esperienza acquisita, dal rapporto tra la natura delle mansioni svolte e l'esperienza acquisita mediante l'espletamento di tali mansioni per un determinato numero di ore di lavoro.

Il divieto oggettivo di discriminazione dei lavoratori, per ragioni collegate all’appartenenza ad un determinato sesso, opera sicuramente anche nei rapporti di lavoro autonomo, sulla base della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento e, in particolare, delle regole poste dal diritto comunitario. Discriminazione, infatti, come definita nel più recente intervento legislativo in materia (articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) si ha quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (discriminazione c.d. diretta), ovvero quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

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