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lunedì 24 novembre 2008

Fisco: Certificazione Utili e proventi equiparati - CUPE 2009

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Dal sito dell'Agenzia delle Entrate

Penale. Cass. 43313/2008 Guida in stato di ebbrezza

CIRCOLAZIONE STRADALE – GUIDA IN STATO DI EBBREZZA – NORMA INCRIMINATRICE A FATTISPECIE PLURIME
La Corte ha chiarito che le tre diverse ipotesi di guida in stato di ebbrezza configurate nell’art. 186 cod. strada, a seguito delle modifiche apportate dal d. l. n. 117 del 2007, integrano altrettante fattispecie autonome di reato, rilevando come tra le disposizioni che le prevedono non intercorra alcun rapporto di specialità che consenta di considerare alcune delle ipotesi come mere circostanze aggravanti delle altre.

Dir. Societario: Cass Sent 25192/2008, cancellazione registro imprese

In tema d’interpretazione del nuovo diritto societario, la Corte ha stabilito che la modifica dell’art. 2495 cod. civ., ex art. 4 d.lgs. n. 6 del 2003, per cui la cancellazione dal registro delle imprese determina, contrariamente al passato, l’estinzione della società, si applica anche alle società di persone, nonostante la prescrizione normativa indichi esclusivamente quelle di capitali e quelle cooperative. La S.C. ha affermato, inoltre, che la norma, per la sua funzione ricognitiva, è retroattiva e trova applicazione anche in ordine alle cancellazioni intervenute anteriormente all’1/1/2004, data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal citato d.lgs. n. 6 del 2003, con la sola esclusione dei rapporti esauriti e degli effetti già irreversibilmente verificatisi.

Lavoro: Cass. Sent 27475/2008 - Partecipazione impresa familiare

Con decisione per la quale non constano precedenti specifici, la S.C., statuendo l’applicabilità al partecipe dell’impresa familiare della disciplina del riscatto di cui all’art. 732 c.c. nei limiti di compatibilità, ha affermato che il rinvio enunciato, nell’art. 230 bis c.c., all’art. 732 c.c. attiene al diritto di prelazione tout-court e al possibile sviluppo dell’istituto nella direzione del riscatto presso terzi acquirenti, attesa la ratio, perseguita dal legislatore, di predisporre una più intensa protezione al lavoro familiare, favorendo, nell’acquisto dell’azienda, chi abbia contribuito attivamente all’impresa nell’ambito della comunità familiare e rinvenendo, a fondamento dell’istituto, giustificazioni ispirate alla tutela del lavoro cui partecipa la comunità familiare, con particolare occhio di riguardo, non esplicitato, ma evidente, dato il momento storico di riferimento, al lavoro femminile.

Condominio: legittimazione del singolo condomino

Configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini, l'esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l'amministratore, non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti, esclusivi e comuni, inerenti all'edificio condominiale. Ne consegue che ciascun condomino è legittimato ad impugnare personalmente, anche per cassazione, la sentenza sfavorevole emessa nei confronti della collettività condominiale ove, come nella specie, non vi provveda l'amministratore

domenica 16 novembre 2008

condominio: comunicazione di vendita - preliminare

In tema di prelazione urbana, poiché la stipula del contratto preliminare di vendita dell'immobile locato con altro soggetto integra la chiara manifestazione, da parte del locatore, dell'intento di vendere, dal momento di tale stipula sorge a carico del locatore l'obbligo di darne comunicazione al conduttore con atto notificato e corredato di tutte le indicazioni circa le condizioni di vendita, ai sensi dell'art. 38 della legge n. 392 del 1978, mentre è irrilevante che il contratto definitivo debba essere stipulato in data successiva alla cessazione del rapporto locativo, in quanto la norma citata fa riferimento non alla stipula del definitivo ma al momento in cui sorge l'intento di vendere e, presumibilmente, inizia la ricerca del compratore.
Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2008, n. 5502

Condominio: Falsità ideologica del verbale d'assemblea

Il giudizio, per fare dichiarare la falsità ideologica del verbale dell'assemblea condominiale, deve essere promosso e svolto nei confronti del Presidente e del Segretario della stessa delibera assembleare, i quali, essendo i redattori e sottoscrittori del verbale, sono anche gli autori del falso. Il Condominio, pertanto, non ha legittimazione passiva, ma può essere chiamato in giudizio affinché la pronuncia faccia stato nei suoi confronti.
Trib. civ. Milano, sez. VIII, 30 settembre 2004, n. 11329

Interpello articolo 11, legge 27 luglio 2000, n. 212. Art. 50-bis d.l. 30 agosto 1993, n. 331. Depositi IVA

Interpello articolo 11, legge 27 luglio 2000, n. 212. Art. 50-bis d.l. 30 agosto 1993, n. 331. Depositi IVA.

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Penale: reato ambientale

RIFERIBILITA', OLTRE CHE AI REATI INTRODOTTI DALL'ART. 2 DEL CITATO D.L., AI SOLI REATI CONNESSI ALLA GESTIONE DEI RIFIUTI E NON A QUELLI AMBIENTALI "IN GENERE"
Con la decisione in esame la Corte, risolvendo un conflitto negativo di competenza tra un G.i.p. circondariale ed il G.i.p. collegiale presso il Tribunale di Napoli costituito ai sensi dell’art. 3 del D.L. n. 90 del 2008 (conv., con modd. in L. n. 123 del 2008), ha affermato che la speciale competenza attribuita agli organi giurisdizionali indicati al predetto art. 3 è limitata ai soli procedimenti penali relativi alla gestione dei rifiuti nella Regione Campania (ovvero ai reati introdotti dall’art. 2 del nuovo testo nonché a quelli previsti e sanzionati dalla Parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006) e non si estende ai reati ambientali in genere.

Tributario: TRIBUTI - IRPEF - INDENNITA' DI FINE RAPPORTO - LAVORO PRESTATO ALL'ESTERO

In tema di IRPEF, la Suprema Corte ha affermato che l'indennità di fine rapporto (nella specie, l'indennità supplementare per licenziamento prevista dall'art. 19 del CCNL per i dirigenti di aziende industriali) corrisposta ad un soggetto non residente è assoggettabile a tassazione, ai sensi dell'art. 23 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, solo nel caso in cui trovi la propria fonte in un rapporto di lavoro dipendente il cui reddito sia assoggettabile ad imposizione in quanto prodotto nel territorio dello Stato, e non anche quando derivi da lavoro dipendente prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, in quanto i redditi derivanti da tale tipo di rapporto sono esclusi in ogni caso dalla base imponibile, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 917 cit..

Cass. Civ. SENTENZA N. 26913 /2008 CAMBIALI - AZIONE CAUSALE FINDATA SU CONTRATTO DI CONTO CORRENTE BANCARIO - RESTITUZIONE DEI TITOLI

La possibilità di procedere in via monitoria ai sensi dell’art. 50 t.u. l. bancaria non fa venir meno, quando il salda-conto o gli estratti conto siano sostenuti da titoli di credito (assegni bancari o cambiali), l’obbligo di offrirli in restituzione e di depositarli in cancelleria ai sensi dell’art. 58 l. assegni. Tale obbligo, assolutamente ineludibile, trova la sua ratio nella necessità di evitare la possibile duplicazione della pretesa di credito e di consentire azioni di regresso.

Cass. Civ. SENTENZA N. 27145/2008 DIRITTI DELLA PERSONALITA’ – PROCESSO CIVILE – POTERE DI IMPUGNAZIONE DEL P.M.

E’ inammissibile, per difetto di legittimazione, l’impugnazione presentata dal P.M. presso la Corte d'Appello avverso il decreto con il quale la stessa Corte d'Appello – applicando il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione (sentenza n. 21748 del 2007) – accoglieva l’istanza congiunta del tutore (padre) e del curatore speciale di persona in stato vegetativo permanente dal 1992 e autorizzava l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale realizzato mediante alimentazione di sondino nasogastrico.
All’esito di una compiuta ricostruzione della vicenda giudiziaria, le S.U., - facendo applicazione di principi consolidati nella giurisprudenza e ripercorrendo le funzioni attribuite al P.M. nel processo civile – hanno, in particolare, chiarito che:
a) al fine di estendere il limitato potere di impugnazione del P.M. non varrebbe l’interpretazione estensiva della nozione di questioni attinenti allo "stato e capacità delle persone", atteso che anche in queste ipotesi alla previsione dell’intervento necessario del P.M. non si accompagna il potere di impugnazione, identificandosi le relative funzioni in quelle che svolge il Procuratore generale presso la Cassazione;
b) non è utile il richiamo alla impugnazione nell’"interesse della legge" di cui al novellato art. 363 c.p.c.;
c) la limitazione del potere di impugnazione del P.M. presso il giudice del merito si sottrae a dubbi di legittimità costituzionale, stante l’evidente ragionevolezza del non identico trattamento di fattispecie in cui viene in rilievo un diritto personalissimo di spessore costituzionale (autodeterminazione terapeutica), rispetto al quale è coerente che il P.M. non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione di decisione di accoglimento della domanda di tutela del titolare, e fattispecie connotate da prevalente interesse pubblico, come quelle cui fa rinvio l’art. 69 c.p.c.

lunedì 10 novembre 2008

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Stranieri: Tar Veneto Sent. 3125/2008

"PER LA CITTADINANZA NECESSARIA LA PROVA DELLA RESIDENZA DECENNALE NEL TERRITORIO DELLO STATO"

L’art. 9, comma 1, lettera f), della legge n. 91/1992 non richiede la mera presenza dello straniero nel territorio della Repubblica, ma prevede quale condizione indefettibile per la concessione della cittadinanza italiana che esso vi risieda legalmente da almeno dieci anni.
La condizione di “residenza legale”, richiesta dall’art. 9 citato, acquista concretezza attraverso il disposto dell’art. 1, comma 2 lettera a), del D.P.R. 12 ottobre 1993, n. 572 , ai sensi del quale è legalmente residente nel territorio dello Stato chi vi risiede avendo soddisfatto le condizioni e gli adempimenti previsti dalle norme in materia di iscrizione anagrafica.
Ne consegue che, per configurare il presupposto della “residenza legale ultradecennale” richiesto dall’art. 9 della legge, non è sufficiente il mantenimento di un’ininterrotta situazione fattuale di residenza, ma è necessario che la stessa sia stata accertata in conformità alla disciplina interna in materia di anagrafe.
Inoltre il requisito della residenza decennale nel territorio della Repubblica italiana deve essere posseduto attualmente ed ininterrottamente alla data di presentazione della domanda, non essendo possibile cumulare periodi diversi, né avvalersi del detto requisito maturato in passato ove, poi, la continuità della residenza sia venuta a mancare

Famiglia: Cassazione Sent 24574/2008

NEL FISSARE LA RESIDENZA FAMILIARE LA SERENITA' CONTA PIU' DEL DENARO

Nel contesto di tali accertate circostanze di fatto, assume rilievo il principio fissato dall'art. 144 c.c., secondo cui la scelta della residenza familiare è rimessa alla volontà concordata di entrambi i coniugi, con la conseguenza che tale scelta non deve soddisfare soltanto le esigenze economiche e professionali del marito, ma deve soprattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i coniugi e quelle preminenti della serenità della famiglia (cfr. Cass. 1981/4067). La Corte di appello, nell'affermare, a sostegno della decisione impugnata, che le preminenti esigenze della famiglia, ai sensi dell'art. 144 c.c., dovevano “essere ragionevolmente identificate con l'esigenza di salvaguardare l'attività professionale del marito, presumibilmente meglio retribuita e quindi di fatto più vantaggiosa per la famiglia medesima (tanto più che poco tempo dopo il matrimonio la L. aveva scoperto di essere incinta)”, non ha correttamente applicato il disposto dell'art. 144 c.c., nel senso sopra enunciato, trascurando di valutare, ai fini dell'accertamento della sussistenza o meno del nesso di causalità tra il comportamento della L. e il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza tra i coniugi, le complessive esigenze della famiglia, nell'ottica imposta dalla citata disposizione, anche alla luce di quelle personali della moglie, proprio in relazione al suo stato di gravidanza e di successiva maternità e quindi alle conseguenti prospettive del nucleo familiare allargato.

Lavoro: Cassazione 9993/2008

LAVORO SUBORDINATO - PROROGA DEL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO - CONDIZIONI
La S.C. ha precisato che la proroga del contratto di lavoro a tempo determinato e' legittima se vi sia identita' dell'attivita' lavorativa rispetto a quella per la quale il contratto e' stato stipulato e ricorrano esigenze contingenti ed imprevedibili che impongano la proroga, sempre che queste ultime siano ontologicamente diverse da quelle che costituivano la ragione dell'iniziale contratto.

penale: Proscioglimento Cassazione SS.UU. Sent 40049 / 2008

SENTENZA – PROSCIOGLIMENTO – CAUSA DI GIUSTIFICAZIONE – FORMULA – ERRONEITÀ – PARTE CIVILE – RICORSO PER SALTUM – INTERESSE
Le Sezioni unite hanno statuito, in conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che la formula di proscioglimento «perché il fatto non costituisce reato» deve essere adottata in presenza di una causa di giustificazione, come quella dell’esercizio del diritto di critica nelle condotte di diffamazione. Hanno poi aggiunto che il ricorso immediato per cassazione della parte civile, che non contesti l’accertamento della causa di giustificazione e sia diretto soltanto alla sostituzione della formula, da quella «perché il fatto non sussiste» a quella «perché il fatto non costituisce reato», è inammissibile per difetto di un interesse concreto. Al di là della formula, infatti, la sentenza di proscioglimento, che abbia accertato l’esistenza della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto, ha comunque effetti vincolanti nel giudizio civile per il risarcimento.

Tributario : Cassazione Sent 25902/2008

Ai fini dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), il contemporaneo utilizzo di più di un’unità catastale come abitazione principale non costituisce ostacolo all’applicazione, per tutte, dell’aliquota prevista per l’abitazione principale medesima, sempre che il derivato complesso abitativo utilizzato non trascenda la categoria catastale delle unità che lo compongono, assumendo rilievo, a tal fine, non il numero delle unità catastali ma l’effettiva utilizzazione ad abitazione principale dell’immobile complessivamente considerato, ferma restando la spettanza della detrazione prevista dal secondo comma dell’art. 8 d.lgs n. 504 del 1992 una sola volta per tutte le unità.

Condominio: delibere nulle e annullabili

Cass., Sezione II, sentenza del 24 luglio 2008 n. 20394

In tema di ripartizione delle spese, le delibere sono nulle se l'assemblea, esulando dalle proprie attribuzioni, modifica i criteri stabiliti dalla legge, mentre sono annullabili nel caso in cui i suddetti criteri siano violati o disattesi con la conseguenza che la delibera deve essere impugnata nel termine di cui all'art. 1137 u.c. del codice civile.

domenica 2 novembre 2008

Lavoro: Anche il lavoro saltuario può essere subordinato. Cassazione Sent. 31388/2008

secondo il consolidato e condiviso orientamento interpretativo di questa Corte, ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato sia di rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle modalità del suo svolgimento; l'elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro con assoggettamento alle direttive da questo impartite circa le modalità di esecuzione dell'attività lavorativa, mentre altri elementi, come l'osservanza di un orario, l'assenza di rischio economico, la forma di retribuzione e la stessa collaborazione, possono avere, invece, valore indicativo ma mai determinante; l'esistenza del suddetto vincolo va concretamente apprezzata dal giudice di merito con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che, in sede di legittimità , è censurabile soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in tale sede se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice di merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale (cfr., ex plurimus, Cass. n. 4036/2000; 20669/2004; 7966/2006).

4. Alla luce delle ricordate argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, deve convenirsi che la Corte territoriale ha puntualmente osservato i criteri dettati per l'individuazione della natura del rapporto, riscontrando la sussistenza del vincolo della subordinazione sulla base delle descritte modalità dell'attività lavorativa, contraddistinta dalla messa a disposizione da parte dei lavoratori delle proprie energie lavorative, dall'obbligo di sottostare alle disposizioni impartite loro dal superiore gerarchico e, quindi, dal loro inserimento nell'organizzazione aziendale.

La considerazione svolta sulla natura esecutiva delle mansioni espletate riflette soltanto la ritenuta difficoltà nel poter individuare in relazione alle stesse un'obbligazione di risultato, ma non costituisce il punto decisivo della soluzione accolta, che, come detto, consiste invece nell'essere stato concretamente individuata la sussistenza della subordinazione.

Al contempo la corte territoriale ha congruamente motivato (richiamando condivisa giurisprudenza di questa Corte; cfr. Cass. n. 7304/1999) in ordine alla idoneità del carattere saltuario delle prestazioni a consentire di per sé la loro qualificazione nel senso dell'autonomia e, del pari congruamente , in ordine all'inidoneità dell'effettuazione della ritenuta d'acconto sui compensi a far ritenere che la volontà delle parti si fosse formata nel senso della autonomia del rapporto.

Trattasi dunque di motivazione coerente con le risultanze processuali, immune da vizi logici e da errori giuridici e che pertanto, come tale, si sottrae alle censure svolte.

5. queste ultime, in realtà, evidenziando quelle peculiarità fattuali dei rapporti de quibus che, a giudizio della ricorrente, avrebbero potuto portare ad una diversa soluzione della controversia, si risolvono nella prospettazione di una interpretazione delle risultanze processuali difforme da quella adottata, senza tuttavia indicare emergenze probatorie decisive, tali cioè che, se considerate dal giudice del merito, sarebbero state idonee di per sé a condurre, in termini di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa soluzione della controversia (cfr. ex plurimis, Cass. n. 7000/1993; 1203/2000; 13981/2004).

Deve poi rilevarsi che, avendo ritenuto la Corte territoriale, in base alla valutazione complessiva delle emergenze processuali e con motivazione adeguata e giuridicamente corretta, la natura subordinata dei rapporti, ciò ha comportato l'implicita – ma in equivoca – ripulsa delle argomentazioni della parte volte alla qualificazione dei rapporti stessi in termini di autonomia, cosicché il secondo e il terzo mezzo risultano privi di pregio una volta riscontrata l'infondatezza del primo (dovendo altresì osservarsi che il terzo mezzo presenta anche profili di inammissibilità laddove, affermando che le ricevute in atti «si presentano tutte sottoscritte dai dipendenti», omette di ripotarne puntualmente il contenuto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione).

6. In definitiva il ricorso, pur affermando il contrario, finisce, nella sostanza per richiedere a questa corte che non ne ha il potere, un riesame del merito , e pertanto deve essere rigettato.

Legge pinto: eccessiva durata del Processo. Cassazione Sent. 14/2008

Il ricorso è fondato per quanto di ragione.

Preliminarmente deve essere esaminata la eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 2 della L. n. 89/01, essendo rilevante ai fini della decisione della presente controversia.

Appare opportuno precisare che piu' decisioni della Corte Europea, emesse a carico dell'Italia in data 10 novembre 2004, hanno affermato che il termine, da prendere in considerazione ai fini della liquidazione dell'indennizzo per la eccessiva durata del processo, è quello della intera durata del procedimento. Tra queste in particolare le pronunce sul ricorso n. 62361/00, proposto da R. P. c. Italia sul ricorso n. 64897/01 proposto da Z. c. Italia.

In tutte le sentenze in questione la Corte Europea, dopo aver contestato l'eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari oggetto del giudizio, ha, altresì, rilevato che, già in passato, in numerose occasioni, aveva avuto modo di riscontrare l'esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione, costituita dall'affastellamento di violazioni dell'art. 6.

Ha ritenuto, pertanto, che ove si riscontri una violazione di questo articolo,come avvenuto nei casi in esame, detta prassi costituisca un'aggravante della violazione stessa.

Dopo aver ricordato che ogni sentenza che accerta una violazione obbliga lo Stato convenuto a porre termine alla violazione stessa e ad eliminarne le conseguenze e che, se la normativa nazionale non prevede altro che una parziale eliminazione, l'art. 41 Cedu consente alla Corte di accordare al ricorrente una soddisfazione in via equitativa, ritenuto che il risarcimento concesso in sede nazionale non costituisse una riparazione appropriata e sufficiente, la Corte, in applicazione del citato art. 41, ha condannato lo Stato italiano al pagamento di ulteriori somme, prendendo quale base per la liquidazione del danno morale la intera durata del procedimento e non il periodo di ritardo (rispetto al termine da ritenersi ragionevole) per la sua definizione.

Passando all'esame della sollevata eccezione di incostituzionalità dell'art. 2, comma 3, lett. a) della legge n. 89/01, il collegio ritiene di doverla dichiarare manifestamente infondata per le seguenti considerazioni.

Il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, della costituzione, nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, - il quale dispone che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – per come è strutturato, diventa concretamente operativo – al fine del giudizio di costituzionalità della norma sopra indicata – solo se vengono determinati quali siano gli «obblighi internazionali», che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni (cfr. sentenze n. 348 e 349 della corte Costituzionale del 22-24-10-2007).

Nel caso di specie, la funzione di dare concreta consistenza agli obblighi internazionali dello stato e, quindi, di integrare e rendere operativo detto parametro, viene assolta dalle norme della CEDU (che in tal caso operano quali «fonti interposte» tra la costituzione e la norma ordinaria, occupando così una posizione intermedia, che porta a riconoscere loro il rango di norme sub-costituzionali).

Va precisato subito, però, che non vengono in considerazione, come fonti interposte, le disposizioni della CEDU in sé e per sé considerate, ma queste nel significato loro attribuito dalla Corte Europea, di cui all'art. 32, paragrafo 1, della Convenzione, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed attuazione e dotata , quindi, di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti, con la sottoscrizione e ratifica della CEDU, hanno riconosciuto alla stessa (cfr. le succitate sentenze della Corte Costituzionale).

Il principio che le norme della CEDU vivono nella interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte Europea non può essere, ovviamente, inteso nel senso che la giurisprudenza di questa corte si riferisca a tali norme in modo generico, ma nel senso che ogni singola norma vive nella specifica interpretazione che ne da la corte. Il che implica di indagare, al fine di stabilirne la portata, quale è la norma o quali sono le norme, se piu', che vengono interpretate ed applicate in ogni singolo giudizio; quindi, con riferimento al caso che ne occupa, quale norma CEDU deve ritenersi vivente nella interpretazione datane dalle sentenze del 10 novembre 2004, la dove affermano che il periodo da prendersi in considerazione, al fine del risarcimento del danno per la violazione del termine di ragionevole durata del processo, è l'intero periodo di durata del processo presupposto.

Con l'eccezione di incostituzionalità proposta, il ricorrente indica, quale fonte intermedia, integrativa dell'art. 117 della Costituzione, l'art. 6 della Convenzione, assumendo ovviamente che questa è la norma che viene in considerazione, nella interpretazione datane dalla Corte Europea, affermando – con riferimento al criterio utilizzabile per la liquidazione dell'indennizzo dovuto per la violazione del termine ragionevole di durata del processo - «che, una volta superata la durata ritenuta ragionevole, ogni anno del procedimento va indennizzato, non potendosi esentare gli anni di una durata ragionevole che non c'è stata».

A seguito di tale affermazione il citato art. 6 della Convenzione dovrebbe ritenersi violato dall'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, in quanto, al comma 3, lett. a) tale norma dispone che per determinare l'entità della riparazione «rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma 1».

Ma vi sono seri argomenti per escludere che, nelle sentenze del 10 novembre 2004, la corte europea abbia elaborato, perché imposto dall'oggetto del giudizio, il summenzionato criterio con riferimento all'art. 6 della Convenzione (nella sentenza Ernestina Z. c. Italia, al paragrafo 4, si afferma testualmente: «La ricorrente ha addotto la violazione dell'articolo 6 paragrafo 1 della convenzione in merito alla lunghezza dei procedimenti civili di cui era parte in causa. Successivamente, la ricorrente indicava che non stava contestando il modo in cui la corte d'appello aveva valutato i ritardi, ma l'ammontare irrisorio del risarcimento accordatole»)

L'art. 6 della CEDU dispone che «ogni persona ha diritto ad un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile………».

Com'è agevole constatare in base alla sua chiara formulazione, l'art. 6 della convenzione riconosce il diritto ad un processo equo ed enuncia le caratteristiche che questo deve possedere per essere tale, e stabilendone così il contenuto, individua anche quali sono gli obblighi cui gli stati contraenti devono conformarsi nell'organizzare il loro sistema giudiziario, sicché le varie richieste di giustizia possano avere risposta a mezzo di un processo che, rispondendo alle caratteristiche imposte da detta norma, possa ritenersi equo.

Questa disposizione individua, dunque, quale è il contenuto del diritto ad un equo processo e, conseguentemente, le modalità delle sue possibili violazioni; non disciplina certo le conseguenze delle violazioni e le modalità della loro ripartizione.

La riparazione della violazione trova, invece, la sua disciplina di principio: nell'art. 41 della CEDU, sull'equa soddisfazione, il quale dispone che «se la corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa»; nonché nell'art. 13 della Convenzione, sul diritto ad un ricorso effettivo, il quale dispone che «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali».

Tenendo conto del contenuto delle disposizioni su riportate e della loro portata, si può logicamente e fondatamente ritenere che sia riferibile all'art. 6 la giurisprudenza della Corte che individua i termini di durata del processo, superati i quali si verifica la violazione del termine ragionevole di durata dello stesso (ad es. riguarda certamente la interpretazione dell'art. 6 l'avere stabilito che può essere considerato ragionevole il termine di tre anni per la durata del giudizio di primo grado e quello di due anni per la durata del giudizio di secondo grado), ma non certo la giurisprudenza che individua i criteri da utilizzare per determinare l'ammontare del risarcimento, riguardando questa non la violazione del diritto all'equo processo, ma la determinazione di un'equa soddisfazione.

Se così è, l'art. 2, comma 3, lett. a), della legge n. 89/01, - che, nella complessiva disciplina dettata dalla legge citata sull'equa riparazione, si limita solamente ad indicare il criterio da utilizzare per determinare l'importo della riparazione dovuto per la violazione del termine ragionevole di durata del processo presupposto – non può fondatamente ritenersi – dato il campo di applicazione, che giova ripeterlo non è quello dell'accertamento della violazione, ma quello consecutivo della sua riparazione – in contrasto con la norma interposta costituita dal predetto art. 6 della Convenzione e, quindi, con l'art. 117 della Costituzione.

Con le decisioni del 10 novembre 2004, che qui vengono in considerazione, la corte Europea ha solamente affermato, come detto, la inadeguatezza dell'indennizzo, che può essere liquidato dal giudice nazionale, facendo applicazione dell'art. 2 della legge n. 89/01, senza però escludere la complessiva attitudine della legge n. 89/01 a garantire un serio ristoro per la lesione del diritto in questione, essendo stata detta attitudine riconosciuta dalla stessa Corte Europea nella sentenza 27 marzo 2003, resa sul ricorso n. 36813/97, proposto da Scordino c. Italia (cfr. in tal senso cass. n. 8603 del 2005; cass. n. 8568 del 2005), avendo questa affermato, addirittura nella citata sentenza Z. che vari tipi di ricorso possono correggere la violazione in modo adeguato: uno tendente ad accelerare la procedura e l'altro di natura indennitaria (cfr. par. 79); che gli Stati possono anche scegliere di dare vita soltanto al ricorso per indennizzo, come ha fatto l'Italia, senza che questo ricorso possa essere considerato come mancante di efficacia (cfr. par. 80); che, quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un ricorso per indennizzo, la Corte deve lasciargli un piu' grande margine di valutazione, perché possa organizzare questo ricorso interno in modo coerente con il suo sistema giuridico e le sue tradizioni e in conformità con il tenore di vita del paese (cfr. par. 82). Giova rilevare, altresì, che il citato art. 2, comma 3, lett. a) della legge 89/01, costituisce particolare applicazione dell'art. 111 della costituzione, il quale, dopo aver recepito pienamente i canoni del giusto processo fissati dall'art. 6, p. 1, della Convenzione, dispone «che la legge ne assicura la ragionevole durata», così sancendo che, nello stabilire quale durata debba ritenersi ragionevole, non si possa prescindere da quella minima imposta da una corretta applicazione, da parte del giudice, della disciplina che lo struttura.

Atteso quanto procede, deve necessariamente ritenersi che il diverso parametro di calcolo dell'equa riparazione, introdotto dalla corte europea – una volta esclusa la fondatezza della denuncia di incostituzionalità del parametro di calcolo di cui al piu' volte citato articolo 2 – produce il solo effetto di aprire, alla «vittima» della violazione, la via sussidiaria dell'applicabilità dell'art. 41 della CEDU sull'equa soddisfazione, il quale dispone, come già su riferito, che «:se la corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, quando è il caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa».

Il collegio ritiene, pertanto, che ai fini dell'indennizzo del danno non deve aversi riguardo, come pretende il ricorrente, ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata (cfr. per tutte cass. n. 21597 del 2005), essendo il giudice nazionale tenuto, nella ipotesi in esame, ad applicare la legge dello Stato, e, quindi, il disposto dell'art. 2, comma 3, lett. a) della legge n. 89/01, non potendo darsi alla giurisprudenza della CEDU, in questione, diretta applicazione nell'ordinamento giuridico italiano con il disapplicare la norma nazionale su indicata (come invece sarebbe possibile per la normativa comunitaria), avendo la Corte Costituzionale chiarito, con le citate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione EDU non era un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti, è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano «obblighi» per gli Stati contraenti (e quindi anche quello dei giudici nazionali di uniformarsi ai parametri CEDU, esclusi i casi, come quello di specie, in cui siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare), ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano in un sistema piu' vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omesso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri.

Il giudice a quo ha, pertanto, correttamente applicato il criterio secondo cui rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole.

Ha violato, però, i parametri indicati dalla CEDU per l'accertamento del periodo di ragionevole durata del processo presupposto (la CEDU ha indicato in tre anni per il primo grado ed in due anni per il secondo grado il termine di durata da ritenersi ragionevole), statuendo che, dei dieci anni di durata, il periodo da considerarsi indennizzabile, perché eccedente la ragionevole durata del processo presupposto, è di anni quattro, dovendosi ritenere ragionevoli il termine di anni tre, per la durata del giudizio di primo grado, e di anni tre, per la durata del giudizio di secondo grado.

Il giudice a quo, avendo liquidato per ogni anno il ritardo soltanto euro 200,00, ha inoltre, violato i parametri CEDU da utilizzarsi per la valutazione del danno morale, avendo la corte indicato, quale base di calcolo, una somma variabile tra i 1000,00 ed i 1.500,00 euro annui.

Per quanto precede, ritiene il collegio che il ricorso possa essere accolto per quanto di ragione con conseguente cassazione della sentenza impugnata e decisioni nel merito, ai sensi dell'art. 384 c.p.c., determinando in anni cinque (tre+due) il periodo ragionevole di durata e nei residui anni cinque il periodo di durata non ragionevole ed in euro 1.000,00 l'indennizzo per ogni anno eccedente la ragionevole durata, non ritenendo il collegio che le ragioni indicate nel ricorso possano ritenersi valide al fine di adottare una base di calcolo superiore a quella rappresentata dal parametro minimo.

Conseguentemente la Presidenza del Consiglio dei Ministri va condannata a pagare al ricorrente la somma di euro 5.000,00 (ottenuta moltiplicando 5 anni – che sono quelli da ritenersi eccedenti la durata ragionevole – per euro 1000,00), con gli interessi come per legge dalla domanda all'effettivo soddisfo, oltre alla refusione delle spese sia del giudizio di merito che di quello di legittimità – da distrarsi in favore del difensore avv. Mario Candiano, che se ne è dichiarato antistatario – che appare giusto liquidare per il giudizio di merito in complessivi euro 675,00, comprensivi di rimborso spese generali, oltre ad I.V.A. e C.A.P., e per il giudizio di legittimità in complessivi euro 700,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Famiglia: diritti del convivente more-uxorio dopo la morte

Mentre il matrimonio, in mancanza di una diversa pattuizione da parte dei coniugi, determina automaticamente tra gli stessi l’istaurazione del regime della comunione dei beni (art.177ss c.c.), la convivenza non comporta alcun effetto di tale specie e i conviventi, pertanto, restano padroni ciascuno dei propri beni e dei propri acquisti, in regime di separazione.
Allorché uno dei conviventi more uxorio muoia, l’altro non ha alcun diritto ereditario.
Infatti, l’art.565 c.c non annovera il convivente more uxorio nella categoria dei successibili ab intestato del de cuius.
Quindi nel caso specifico sottopostomi la compagna del padre, alla morte di questi, non avrà per legge alcun diritto sulle due proprietà accennate.
Il padre potrebbe disporre a favore della compagna solo mediante testamento, ma sempre nei limiti della quota disponibile e mai intaccando la quota legittima (o riserva) spettante ai legittimari (figli eredi) che, nell’ipotesi contraria, potrebbero agire per ottenere la reintegrazione della stessa mediante la riduzione delle disposizioni testamentarie eccedenti la quota di cui il testatore poteva disporre.
Stesso discorso per le donazioni che il padre avesse effettuato in vita a favore della convivente more uxorio

Condominio: Privacy: obbligo amministratore fornire nominativi condomini morosi

1. Con la nota in oggetto, che fa seguito all'incontro tenutosi presso la sede dell'Autorità con rappresentanti dell'Anaci il 3 luglio u.s. (occasionato dalla sentenza Cass. S.U. 8 aprile 2008 n. 9148), codesta Associazione ha formulato un quesito in ordine alla liceità della comunicazione nei confronti di fornitori di beni e servizi condominiali (di regola a cura dell'amministratore) di dati personali riferiti ai partecipanti alla compagine condominiale. In particolare, codesta Associazione precisa che i dati personali oggetto di comunicazione, senza che sia necessario il previo consenso dei condomini interessati, consisterebbero nei nominativi di quelli morosi rispetto al pagamento della somma dovuta e delle rispettive quote millesimali.

2. Com'è noto il Garante, traendo spunto dalle segnalazioni pervenute, ha adottato il 18 maggio 2006 un provvedimento generale relativo al trattamento dei dati personali connesso alle attività di gestione dei condomini, precisando che le informazioni trattate possono essere riferite a ciascun partecipante alla compagine condominiale in quanto funzionali all'amministrazione comune (cfr.punto 2.1)[1].Come chiarito nel medesimo provvedimento, dette informazioni possono essere trattate, per finalità di gestione ed amministrazione del condominio, a seconda dei casi, ai sensi dell'art.24, comma 1, lettere a), b)o c) del Codice [2].

3. Anche a seguito della sentenza richiamata della Suprema Corte, non si ravvisa nella disciplina della protezione dei dati personali alcun ostacolo a detta comunicazione.

Infatti, il trattamento dei dati personali riferito ai singoli condomini può essere effettuato dai fornitori di beni e servizi condominiali in assenza del consenso degli interessati per dare esecuzione agli obblighi di un contratto stipulato dai partecipanti alla compagine condominiale, ancorchè di regola tramite l'amministratore, (art. 24 comma 1, lettera b del Codice) ed eventualmente per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria (art.24 comma 1, lettera f) del Codice)[3].

In base ai principi di protezione dei dati personali le informazioni oggetto di trattamento devono essere pertinenti e non eccedenti (tali possono ritenersi quelle che consentono di identificare i condomini obbligati al pagamento del corrispettivo per l'esecuzione dei contratti di fornitori di beni e servizi, le rispettive quote millesimali, e, se del caso, le ulteriori informazioni eventualmente necessarie a determinare le somme individualmente dovute).

Penale: Cassazione Sent. n. 35286 del 15/09/2008

RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITA' STRANIERE - M.A.E. - DIVIETO DI CONSEGNA DEL CITTADINO PER FINI DI ESECUZIONE PENALE - APPLICABILITA' ALLO STRANIERO RESIDENTE O DIMORANTE - ESCLUSIONE
La Corte, nel confermare l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la limitazione del motivo di rifiuto della consegna per fini di esecuzione penale di cui all’art. 18, lett. r), della l. n. 69/2005 al solo cittadino italiano non si pone in contrasto con i principi della Decisione quadro 2002/584/GAI, ha osservato che gli Stati membri non sono obbligati ad estendere agli stranieri residenti o dimoranti le medesima garanzie riconosciute ai propri cittadini, atteso che l’art. 4, punto 6, della Decisione quadro enuncia ipotesi di rifiuto facoltative la cui trasposizione in una specifica disposizione interna è affidata all’autodeterminazione decisoria dei singoli legislatori nazionali. Si tratta, dunque, di una scelta di politica criminale rispondente ad esigenze del proprio ordinamento ed a canoni di valutazione discrezionale immuni da possibili censure di irragionevolezza, sulla quale nessuna incidenza puo’ esercitare la recente sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 luglio 2008, C- 66/08, Kozlowsky, che si è limitata ad offrire l’interpretazione uniforme della nozione di residenza richiamata nel su citato art. 4, punto 6, senza esprimersi in via generale sulla correttezza o meno delle normative nazionali attuative della Decisione quadro in tema di rifiuto della consegna. (Al riguardo v., in precedenza, Sez. VI, 25 giugno 2008 – 26 giugno 2008, n. 25879, Vizitiu, Rv. 239946).